(26 novembre 2014) – Il gabbiano che vuole volare. L’altra sera, mentre portavo in giro il mio cane per l’ultima passeggiata della giornata, mi sono trovato a passare davanti ad un istituto cittadino occupato da studenti palermitani.
La scena era assolutamente normale: uno striscione in cima alle scale con scritto “occupazione”, i cancelli serenamente aperti perché non avevano alcuna funzione difensiva (da chi e da che cosa, se siamo tutti d’accordo?), capannelli di giovani che chiacchieravano senza alcuna particolare animazione, alcuni genitori intenti a consegnare le vivande calde per la notte, con l’immancabile thermos di caffè in mano. Alcuni ragazzi hanno iniziato ad accarezzare il mio cane che di fronte alle coccole è capace di dimenticare anche me. In fondo anche i cani hanno un cuore!
Mi sono, dunque, fermato e la mia mente in preda all’istintività ha cominciato a cullarsi, per fortuna senza che i giovani se ne accorgessero (altrimenti che figura avrei fatto!) sui soliti luoghi comuni: ma per cosa protestano? con chi se la prendono? perché non studiano? ma che ci stanno a fare genitori e insegnanti? E per chiudere il cerchio mi sono appellato alla più tradizionale e intellettuale rassegnazione: “Ha da passà ‘a nuttata”!
Poi ho subito un attacco tipico da strategia hackers: sono tornato con la memoria agli anni ’80 e a scene tanto simili quanto distanti: i cancelli dei Cantieri navali di Danzica con la protesta dei lavoratori di Solidarność. E subito ad evidenziare le differenze: anche in quel caso cancelli, ma presidiati dalla polizia per impedire sul serio l’accesso agli estranei; anche in quel caso mamme, mogli, sorelle fuori a consegnare non solo caffè, ma anche documenti, notizie, solidarietà da tutto il mondo, con il timore condiviso che da lì a un attimo tutto poteva andare in fumo, solo che la polizia avesse ricevuto l’ordine di intervenire. E, quindi, di nuovo largo sfogo ai luoghi comuni: questi giovani non sanno nulla di quegli anni! Figuriamoci: per scoprire che Berlinguer era un politico italiano e non straniero, li hanno dovuti portare a vedere il film fatto da Veltroni su di lui. E allora che cosa possiamo pretendere sulle loro conoscenze di Solidarność?
L’improvvisa comparsa sulla scena di un gatto ha spezzato il filo dei ricordi: il cane ha abbaiato, i ragazzi si sono allontanati ed io ho potuto riprendere il cammino verso casa.
Ma all’angolo opposto della scalinata un altro gruppetto accompagnandosi con una chitarra cantava: questa volta il motivo ha richiamato la mia attenzione. Era una nota canzone di Giorgio Gaber “Qualcuno era comunista” proprio espressione di quegli anni, da me come dalla mia generazione cantata ed amata ripetutamente. Forse per la prima volta mi sono fermato con attenzione sulle parole finali: “E ora? Anche ora ci si sente come in due. Da una parte l'uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall'altra il gabbiano senza più neanche l'intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo”.
Questa volta avrei voluto che l’istintività avesse preso il sopravvento sulla memoria e sulla ragione, ma purtroppo ho dovuto ammettere che quella domanda era la stessa: quella mia degli anni in cui pensavo che avremmo potuto cambiare il mondo e quella di questi giovani che più modestamente e realisticamente vorrebbero cambiare la loro vita, aggiungendovi un pizzico, solo un pizzico, di speranza e di bellezza. Ed allora, di fronte allo “squallore della propria sopravvivenza quotidiana”, incarnata da una generazione che non è in grado neanche di garantirsi il benessere in cui è vissuta, e di fronte al “gabbiano senza più neanche l'intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito”, incarnato da questi giovani che vorrebbero volare ma hanno le ali rattrappite, forse anche per colpa nostra che li abbiamo protetti a tal punto da risparmiare loro il rischio del volo, basta dire: tornate a studiare!
Già, tornare a studiare! Mia moglie è insegnante e tante volte vengono a casa dei suoi allievi. Vengono per un aiuto allo studio, ma in fondo vorrebbero un aiuto a vivere. Non sanno dirlo, ma ne hanno la coscienza. Sembrano attratti e impegnati in tante cose, ma sono solo due le domande di cui vorrebbero dagli adulti una risposta certa e definitiva: perché studiare e come amare.
Della seconda hanno tante risposte, le più varie e le più accattivanti: possono amare sempre, dovunque, chiunque, anche quelli dello stesso sesso, eppure sono sempre alla ricerca di un Amore con la A maiuscola, con gli adulti pronti a dire che non esiste. Meglio accontentarsi “del poco e subito, che del molto e dopo”. Anche noi che oggi abbiamo tre volte la loro età, avevamo la stessa domanda, ma la generazione che ci aveva preceduto, nonni e genitori, ci avevano fatto vedere e toccare che era possibile; che giungere a 50 o 65 anni di matrimonio era bello, salute permettendo. Oggi chi giunge a questa tappa è attorniato da figli, parenti e amici che li ritengono “animali in via di estinzione”, perché se l’amore dura quanto una lametta da rasoio è già una fortuna.
Sulla prima domanda sono ancora più soli e abbandonati. Eppure la nostra generazione, in stretta simbiosi con i nostri genitori, ci aveva aiutato a capire le ragioni dello studio. In quegli anni non ci è stata risparmiato la fatica della scuola, anzi forse era maggiore, ma pur con tante zone d’ombra sapevamo che era un prezzo che valeva la pena di pagare. In fondo, come l’amore che per essere bello e immortale ha un costo, così la scuola per essere tale va vissuta e attraversata per quella che è. Neppure il premier Renzi con la sua pretesa sulla “Buona scuola” si è preso briga di tentare una risposta.
Eppure i soggetti in grado di trovare una nuova risposta ci sono e sono lì proprio a scuola: gli insegnati da un lato e i genitori dall’altro. Basterebbe solo che smettessero di farsi la guerra per tentare di risparmiare ai giovani quello che la vita non consente: fuggire le responsabilità e alleviare le sofferenze. Potrebbero in tale modo stipulare un patto educativo fondato non sui progetti didattici, sui percorsi educativi, sulle schede da compilare e sulle relazioni da inviare al Ministero, per ricevere i finanziamenti pubblici, ma sulla comune consapevolezza che il futuro di figli e studenti è più nelle loro mani che nel Ministero dell’Istruzione; che possono più loro, con il pur fragile e precario buon esempio, che tanti programmi televisivi volti ad aiutarli a fuggire dalla realtà.
La mia generazione è cresciuta cantando e sognando Imagine di John Lennon. Proviamo per un attimo ad immaginare che in un liceo occupato si convochi un’assemblea di insegnanti e genitori che per una volta non stringano alleanza per denunciare le carenze della scuola e delle istituzioni scolastiche; ma una assemblea in cui parlare dei loro figli e dei loro studenti (magari in loro assenza), quindi con la preoccupazione non di apparire comprensivi e accondiscendenti ai loro occhi, ma di trovare forme e modalità concrete per essere autorevoli compagni di viaggio, in grado alla fine di consegnare il testimone della loro corsa verso la vita.
Qual è il più grande tesoro che ci è stato consegnato da chi ci ha preceduto? Il valore della vita! Le forme della vita cambiano, ma la vita ha ancora un valore? Se non ha valore e il cinismo deve prevalere … siamo coerenti, smettiamola di spendere tanti soldi in cure e medicine (spesso inutili!). Ma, se così non è, aiutiamoli a scoprire il gusto della vita, quello che ancora conserviamo, quello che ci consente di andare ogni giorno al lavoro (malgrado nessuno sembra essere riconoscente per quello che facciamo), quello che ci consente di gioire quando ci nasce un figlio o un nipotino o di scoprirci con il cuore intristito quando un neonato viene trovato morto in un cassonetto (malgrado facciamo sempre meno figli), quello che ci consente di dire “Com’è bello” di fronte ad una cosa bella (malgrado il nuovo sport nazionale della rottamazione ad ogni costo ci fa dire che non c’è nulla da salvare di questa società).
Il mio cane si è stufato: ha preso la sua razione aggiuntiva di coccole, ha intrapreso una schermaglia col gatto per affermare che lui è il cane, ha pure ricevuto una dose di biscotti aggiuntiva dai giovani che cantano. Ora vuole tornare a casa. Vuole andare a dormire. Anche per lui la giornata è finita. “Domani è un altro giorno, si vedrà”.
Mi sovviene un ennesimo ricordo scolastico: “Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia: diman tristezza e noia recheran l'ore, ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno”.
Torno a casa. Il cane si è subito addormentato grato per la dose gratuita di carezze e biscotti ricevuta. Io faccio fatica a prender sonno, diviso fra i pensieri del domani che mi attende e il ricordo dei ragazzi che ho lasciato, gabbiani con le ali forse rattrappite, ma desiderosi di volare. In fondo vorrei tornare ad essere come loro, desiderosi di spiccare il volo, pur paurosi di cader al primo alito di vento.
Mi addormento finalmente con questa domanda: saremo in grado di insegnare loro a volare, senza pretendere prima di stabilire verso dove devono andare?
Articoli correlati
Conversazione sulla scuola/1 – di Mauro Buscemi
Conversazione sulla scuola/2 – di Cinzia Billa
Conversazione sulla scuola/3 – di Giuseppe Lupo
Conversazione sulla scuola/4 – di Giuseppe La Russa
Conversazione sulla scuola/5 – di Paolo Minà