Far memoria. Le stazioni della Via Crucis

 


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Antonio Mercadante, Stazioni di via sacra. Quattro Viae Crucis siciliane dal XVIII al XX sec., “Scrinia” n. 9 Collana del Centro Studi Cammarata di San Cataldo, Caltanissetta, Edizioni Lussografica, 2012, pp. 116, € 25,00


 

 

 

luigibontFar memoria dei fatti narrati nei Vangeli è sempre stato un impellente motivo esistenziale per il cristiano impegnato ad aderire pienamente al proprio credo. Attraverso la lingua, i gesti, i suoni e le immagini, il fedele rimane incollato alla Parola che, all’interno delle chiese e in svariati modi, diventa anche racconto visivo della salvezza snocciolato mediante le vetrate istoriate, le pale d’altare, le pitture, le sculture che diventano contemplazione della bellezza e rivelano la spiritualità, i gusti e le possibilità economiche di frotte di astanti intenti a mostrare il proprio legame verso Cristo, la Madonna e i santi. Anche la semplice e comune Via Crucis conferma quest’orizzonte concettuale. Collocate sulle pareti delle chiese, le stazioni della Via Crucis marcano i confini interni del luogo sacro, sostengono la fede mediante il ricordo e la partecipazione al progetto di Dio sgranando visivamente le ultime ore di Cristo. La loro presenza all’interno delle chiese è diffusissima e diventa un tutt’uno con l’arredo, le suppellettili, ed acquista capacità comunicativa e pedagogica nella misura in cui il messaggio da veicolare risulta elementare, semplice e di immediata lettura.

Su questa lunghezza d’onda si pone l’ultimo libro del critico d’arte Antonio Mercadante, reso ancor più prezioso dalle belle immagini proposte, dalla sua grande capacità narrativa e dall’assoluta famigliarità con una produzione artistica “minore”. Elementi questi supportati da un metodo comparativo raffinato e dalla sua costante preoccupazione di contestualizzare i manufatti con gli appositi strumenti scientifici, dando così il giusto valore e la dovuta dignità a queste silenziose opere estremamente godibili.

Un microgenere figurativo indagato dall’autore la cui scelta di campo e di interessi tradisce il paradigma delle pari dignità di tutte le espressioni delle arti umane, demonizzando coloro che ancora ritengono che esista una superiorità culturale delle grandi opere visive rispetto ad umili ed “insignificanti” prodotti locali.

Del resto lo stesso autore riconosce lo scarso interesse riversato su ciò che è stato oggetto del suo studio ed invita ad intraprendere un “lavoro sistematico dedicato all’argomento che affronti la mole delle produzioni secolo per secolo”. Una questione che può sembrare sì marginale per chi non si occupa di aspetti legati alla vita socio-religiosa, spirituale e materiale delle nostre comunità, ma che invece ci riserva piacevoli sorprese e ci illumina un cono d’ombra troppo spesso trascurato, una sorta di terra di nessuno. Un tema dunque vasto e complesso che richiede numerose competenze possedute dall’A. il quale coltiva l’arte dello scrivere con rara efficacia, con piglio sicuro e con rigorosa leggerezza scientifica.

Il volume si apre con una breve introduzione, cui fa seguito l’analisi delle opere. L’A. presta attenzione a quattro manufatti disseminati sul territorio siciliano e assegnabili cronologicamente in periodi diversi che coprono un arco di tre secoli, dal XVIII al XX secolo.

Di forme e stile diversi, le stazioni delle Via sacra sono accomunate dal tema iconografico, e si differenziano dalla qualità del materiale impiegato, sottolineando così una committenza eterogenea e dinamiche culturali ed economiche di vario spessore. La prima Via Crucis, di non facile fruizione perché proveniente dal monastero delle benedettine di Mazara del Vallo, si caratterizza per il numero delle scene che ammontano a 15, in genere si attestano a 14 quadri, e per il materiale di supporto adoperato, il vetro di forma ovale. L’A. assegna provvisoriamente l’opera a Tommaso Sciacca di Mazara che la eseguì intorno al 1753-54, attribuzione che rimarrà incerta fino a quando “gli storici dell’arte specialisti che arano il campo delle produzioni locali non indicheranno qualche verosimile confronto testuale”.

La seconda è attualmente custodita dalla Fondazione Carlo Mazzone di Caltanissetta, ma proviene dall’abbazia normanna di Santo Spirito della stessa città. La Via Crucis è stata eseguita “forse ad opera di un artista cappuccino” dopo il 1759, anno in cui l’ordine francescano prese possesso dell’edificio ecclesiastico. Le 14 stazioni, olio su tela, sono pervase da un linguaggio formale semplice e primitivo che tradisce una forte tradizione cappuccina nella zona.

Poco distante dal capoluogo nisseno si affaccia un paese di nuova fondazione, San Cataldo, che ha dato i natali ad una serie di pittori tra Sette-Ottocento, tra cui i fratelli Raimondo (1783-1845), Michele (1789-1865) e, il figlio di quest’ultimo, Giuseppe Butera (1838-1908). Uno di questi, Michele, ci ha lasciato parecchi dipinti ubicati nelle chiese del paese. In quella di San Giuseppe, se ne contano ben tre: un san Liborio, una Crocifissione e una Via Crucis. Riconduciamo la paternità di quest’ultima al Butera dallo stile e ancor più dal Taccuino del pittore, fogli preziosi per ricostruire l’attività di bottega e il suo percorso artistico. Tale Via Crucis è dipinta su lamiera zincata e in calce compaiono i nomi dei committenti, modesti artigiani inscritti alla confraternita di San Giuseppe dediti alla cura dell’omonimo luogo religioso. L’A. giustamente definisce il Butera “un vero mastro pittore”, delineandone la figura sulla scorta di materiale bibliografico non del tutto aggiornato, sfuggendogli un contributo pubblicato qualche anno addietro in un volume a più mani sulla storia della città di San Cataldo, proprio dal Centro Studi Cammarata, promotore anche di questo studio.

Un peccatuccio che nulla toglie all’analisi e alla ricostruzione proposte da Mercadante di storie frammentarie di committenti e di artisti, conducendo il lettore in un percorso affascinante e ricco di implicazioni culturali.

L’ultima piacevole sorpresa proviene da un borgo nei pressi di Caltanissetta, dedicato ad un “martire fascista” locale Gigino Gattuso, ora denominato Petilia, dove una Via Crucis è incastonata in pilastrini lungo la via principale del borgo che porta alla chiesa. Risale agli inizi degli anni quaranta del secolo scorso quando la politica fascista intendeva ancora ripopolare stabilmente le campagne e offrire ai coloni le necessarie infrastrutture per realizzare la tanto agognata rivoluzione rurale. L’artista catanese Giovanni Ballarò, autore dei bassorilievi in ceramica policroma, ha privilegiato l’essenzialità delle forme, esaltando così la soggettività dei personaggi ed imponendo nella scena non “più di quattro personaggi, […] nessun testimone oltre i protagonisti”.

Non c’è retorica in ciò che viene descritto dall’artista, né ostentazione del sacrificio, solo grumi narrativi nel contemplare la bellezza e tentare di far memoria in “una prospettiva di racconto personale pur dentro i vincoli assegnati dalla tradizione delle scene canoniche”.

Va dato un pieno riconoscimento all’A. per averci offerto un saggio, dai molteplici piani interpretatavi intersecati e giustapposti fra loro, che proietta il lettore in una nuova dimensione nel leggere le stazioni della Via Crucis e focalizza l’attenzione su un patrimonio artistico ancora da valorizzare. 

 

 

 

 

 

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