Conversazione sulla scuola/12

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“Allons enfants!”: Parigi vista dall’aula di una scuola

Riecheggia di nuovo, nel cuore d’Europa, come una bestemmia, il grido della grandezza di Dio. Ma come potrebbe un Dio gloriarsi di 129 morti innocenti, di trecento feriti, molti dei quali in condizioni gravissime? E poi, come entrare in classe la mattina dopo gli attentati che hanno sconvolto la capitale francese, lasciando fuori il dramma del reale? È impossibile. Perciò comincio nel modo più semplice, metto di lato il registro e chiedo ai miei alunni di quarto anno: «Ragazzi, cosa pensate di quanto è accaduto a Parigi?»

La prima risposta è di Andrea, rappresentante degli studenti del nostro istituto situato di vedetta, in cima ad una collina, al margine del mondo occidentale: «Hanno colpito un ristorante, il luogo di un concerto e lo stadio, i posti della felicità». La sua risposta mi spiazza subito. «Perché ha usato la parola “felicità” – mi domando – io avrei parlato di “svago” o di “divertimento”». Per l’altro Andrea della classe «è questione di educazione, che noi abbiamo e che loro non ricevono». La distinzione tra “noi” e “loro”, però, non regge. Lo dimostra, più che con le parole, l’imponenza del fisico da boxeur di Oussama. «Non è che questa gente è solo là – afferma sfondando con la sua sola presenza il confine astratto segnato dal suo compagno di classe – questi sono anche in Europa». E che tra “questi” lui non c’è, è chiaro a tutti. Il guaio, invece, è che molti terroristi sono cresciuti in Francia, educati nella scuole della République. La questione, dunque, per me, si pone in questi termini: Qual è l’ipotesi di significato della vita offerta dalla cultura occidentale, per cui tanti giovani che ne assaporano il gusto si sentono poi più attratti dalla proposta del fanatismo, che offre come ideale del compimento di sé il lasciarsi esplodere imbottiti di chiodi e bulloni per trascinare nel nulla il maggior numero possibile di persone inermi? Forse, a colmare questo vuoto di senso non basta la soddisfazione a buon mercato che si può acquistare nei luoghi colpiti dagli attacchi.

La presenza in classe del mio alunno musulmano mi costringe, però, a ripercorrere le pagine buie della storia del nostro Paese. «Il terrorismo – ricordo ai miei alunni – non è un prodotto dell’Islàm. L’Italia ha conosciuto una lunga stagione di attentati di impronta ideologica, che non ha avuto bisogno di una giustificazione religiosa per seminare la morte». La tentazione del nichilismo, nella forma del fondamentalismo religioso che “ama la morte più della vita” o che, nella sua versione laica, sacrifica la persona concreta in nome dell’umanità astratta, può ammaliare tutti. Anche chi oggi grida «rimandiamoli tutti a casa loro».

Da dove iniziare quando gli uomini, da ogni parte, sembrano sollevarsi contro l’umano? Durante la ricreazione Salèm mi confida che «questa gente (i terroristi, ndr) non cambierà mai. Non la convinci». «Non mi importa convincere loro – ribatto – A me interessa quello che pensi tu».

Il mondo, infatti, comincia a cambiare se cambiamo noi, io e Salèm, Oussama e i suoi compagni di classe. Sapremo costruire dei rapporti in cui l’altro ci sia necessario per essere più profondamente noi stessi? Questi rapporti avranno un contenuto di amicizia così indelebile da resistere al lavaggio del cervello dell’odio sia per chi è privo di risorse culturali sia per quanti frequentano le nostre università? Sarà possibile rilanciarsi l’un l’altro alla ricerca di quel significato della vita in cui la verità risplende e si impone al cuore degli uomini che la ricercano senza costrizioni? Questa possibilità non sta nell’iperuranio dei buoni sentimenti. È posta nelle nostre mani. Essa inizia nella quotidianità dei rapporti di tutti. Per noi comincia o muore a scuola. È una guerra. Se sarà vinta, non saranno le armi a determinarne il successo finale, ma un’educazione. Suona la campana. Allons enfants!

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