Mercoledì 3 ottobre 2018 si è tenuta ad Agrigento la Sessione pubblica di chiusura del Processo diocesano di Canonizzazione del Servo di Dio Rosario Angelo Livatino, il giudice ucciso dalla mafia 21 settembre del 1990 all’età di 38 anni. Abbiamo posto al Cardinale Francesco Montenegro, Arcivescovo di Agrigento alcune domande.
Eminenza, San Giovanni Paolo II, che nella visita ad Agrigento di 25 anni fa fu molto toccato dall’incontro con i genitori di Livatino, affermò che Livatino fu martire della giustizia e, quindi, indirettamente, della fede. Che significa ciò?
A mio avviso in quella intuizione il Santo Padre orientava a cercare il motore che aveva mosso Livatino non solo nella causa della giustizia umana, del valore del diritto e di una condotta retta, ma nella fede cristiana da lui abbracciata sin da bambino. È stata la forza di questa fede l’asse portante della sua vita di operatore della giustizia e, spinto da essa, è stato capace di consumare tutta la sua vita.
Quale significato va dato alla conclusione della prima fase del Processo di Canonizzazione?
Almeno due. Il primo è pensare che anche da questa nostra terra possono spuntare frutti buoni, perché dobbiamo ammetterlo, siamo tutti un po' pessimisti. Significa che la vita cristiana si può vivere in semplicità. Livatino non ha fatto niente di straordinario se non vivere con impegno la sua professione.
E il secondo?
Significa che anche in certi ambienti dove pensiamo che il Vangelo non possa entrare Livatino è riuscito a farlo entrare Sul suo tavolo c’erano certamente i codici, civile e penale, ma certamente c’era il Vangelo. Quindi, ognuno di noi ovunque si trova può vivere la sua realtà tenendo conto della parola del Signore.
E per la Chiesa cosa significa?
Per la Chiesa significa che il Vangelo possono viverlo tutti. C’è chi pensa che il Vangelo possano viverlo solo alcuni, come se la santità fosse problema di preti e di suore. La santità è problema di tutti e chi sa vivere tenendosi legato alla parola del Signore vive la sua vita civile in un modo normale e in modo impegnativo.
Vi sono in corso altri processi di beatificazione di laici cristiani. Come si legano queste iniziative fra loro?
In Livatino, come in tanti altri laici portati agli onori degli altari o per i quali è stata avviata la causa di beatificazione – pensiamo a Gianna Beretta Molla, Per Giorgio Frassati, Giorgio La Pira – si rende evidente la chiamata universale alla santità e la logica del lievito o del sale di cui parla Gesù nel Vangelo per indicare il Regno dei cieli, cioè di realtà nascoste ma efficaci, invisibili eppure presenti, poco manifeste ma in grado di fare luce.
Nel suo intervento introduttivo, Lei ha fatto appello alla speranza. Perché?
Quando si accende una luce tutti la vedono. Sarebbe bello se talvolta in quel buio che sembra prendere il sopravvento, noi incominciassimo a puntare gli occhi sulle luci La luce porta speranza; credo che se Agrigento vuole mettere nel suo “equipaggiamento” qualcosa che valga, questa è proprio la speranza. Avere dei simboli, dei segni, delle persone che ci hanno creduto dovrebbe diventare invito per tutti a credere in quello che si è e in quello che si fa. Ecco, Livatino è questa speranza.
L’avvenimento di oggi si colloca a poche settimane dalla venuta del papa a Palermo e del ricordo dell’omicidio del Beato Pino Puglisi? Cosa unisce queste due figure?
Quello che unisce Puglisi e Livatino è il Vangelo, avere creduto nel Vangelo e avere vissuto il proprio servizio. nel modo migliore possibile, non provocando reazioni o facendo rivoluzioni, ma portando avanti il discorso dell’amore. La tensione di don Pino per i ragazzi, la sua preoccupazione per l’ambiente in cui viveva, erano frutto di un amore che non si poteva contenere. Livatino ha vissuto in un tribunale un servizio di amore (lui dice addirittura che la scelta del giudice è anche preghiera) Tutto ciò ci porta a riflettere che quando col Vangelo, non dico in mano, ma nel cuore, viviamo quello che ci tocca vivere la realtà può cambiare e diventa segno per chi guarda. Non abbiamo guardato all’uno e all’altro con meraviglia, ma forse dobbiamo chiederci: se loro l’hanno fatto- e il segreto nella parola di Dio - perché non tentare anche noi?
Dai documenti esaminati è emerso ed ormai è noto che la sigla con cui Livatino concludeva le annotazioni sul suo diario, S.T.D. non era un messaggio in codice, ma l’acronimo di Sub tutela Dei; in fondo un modo tutto suo per esprimere la sua fede e la sua obbedienza a Cristo. Che sensazione prova di fronte a questa circostanza?
Ci sarebbe da dire che il buon Dio è invasivo. Non lascia nessun angolo al buio Ma l’uomo che se ne accorge ci riesce lo deve esternare. Chi non riesce ancora ad incontrarlo ha difficoltà. Livatino portava Dio nel cuore perché era un credente, aveva bisogno di dirlo. L’amore bisogna sempre manifestarlo.
Eminenza oggi si celebra la giornata della Memoria e della Accoglienza, in ricordo delle vittime del naufragio di 5 anni fa al largo di Lampedusa, in cui persero la vita 368 persone nel tentativo di raggiungere l’Europa. Cosa le suscita questa ricorrenza?
Lampedusa è per me un ricordo abbastanza triste perché io sono andato il giorno dopo e quello che ho visto nei giorni successivi non riesco a dimenticarlo. Questa tristezza continua, perché il clima attorno agli immigrati non è il più favorevole; quindi considerare degli uomini come se fossero delle cose e delle cose inopportune, che ti danno fastidio, pensando di poter salvare la propria identità, cacciando chi è diverso, questo mi rattrista perché mi fa dire: ma allora, quale futuro stiamo costruendo?