Leonardo Sciascia e la verità come domanda aperta*

 

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Pubblichiamo la sintesi dell’intervento che Massimo Naro svilupperà al Cerisdi di Palermo, venerdì 16 novembre, nell'ambito del dialogo sul tema «Quid est veritas?» in programma ai "Leonardo Sciascia Colloquia".– Sicily Present


 

(20 novembre 2014) - Riproponiamo questa riflessione di Massimo Naro nel giorno in cui ricorre il venticinquesimo anniversario della scomparsa di Leonardo Sciascia.

 

(15 novembre 2012) – Una chiave di lettura dell’intera opera di Leonardo Sciascia può essere il concetto di reversibilità, illustrato dal Maestro di Racalmuto in una novella contenuta in “Il mare colore del vino”.

La reversibilità ha, in molte altre pagine sciasciane, varie declinazioni. Per esempio, è declinata come contrappasso nella novella “Rimozione”, storia breve di un bracciante comunista alle prese con le moderne de-mitologizzazioni religiose e politiche, che fanno cadere dal piedistallo i simulacri d’un tempo: l’improbabile santa Filomena venerata dalla sua devota moglie al pari del suo caro e baffuto Stalin. E sapore di contrappasso hanno tutti i rovesciamenti che s’incontrano nella storia del giovane Munafò, nato nel fatidico 1943: a cominciare dalla scelta del suo nome, che sarebbe dovuto essere Bruno, come quello di uno dei figli di Mussolini, e che invece, ormai sbarcati in Sicilia gli americani, fu Candido. Si può dire, così, che il contrappasso è l’ordito che incrocia un po’ tutte le trame sciasciane: si pensi all’imputato di “Porte aperte”, nel cui testamento gli inquirenti avevano scovato il suo proposito di «abbattere» la moglie: «termine veterinario che, volendo dire dell’animalità della moglie, si ritorceva a conferirgli bestialità». Così in tante altre pagine, sino al contrappasso supremo, sentenziato ne “Il cavaliere e la morte”: «La morte si sconta vivendo». E contrappasso, ancora, è l’«ironico rovesciamento» nella condanna alla decapitazione (e non alla più proletaria impiccagione) comminata ne “Il Consiglio d’Egitto” all’avvocato rivoluzionario Francesco Paolo Di Blasi, il quale pur s’era battuto per l’uguaglianza di ricchi e poveri: «E allora la sentenza è, anche da questo punto di vista, giustissima: la pena deve contenere, in casi come questo, il rovescio delle idee di cui il soggetto si è reso colpevole», fa esclamare Sciascia a uno degli accusatori.

Proprio nel “Consiglio” la declinazione principale della reversibilità è, però, l’impostura. Che sta per inganno, come Sciascia spiega, citando il Tommaseo, in una pagina di “Porte aperte”. Tuttavia l’inganno, nel ragionamento di Tommaseo cui Sciascia s’associa, non è il contrario della verità (ch’è, invece, la falsità). L’inganno e l’impostura risultano piuttosto da una mescolanza di parole e di silenzio, dal dosaggio dei contrari, avrebbe detto Pirandello nella prospettiva della sua “poetica dell’umorismo”. Non dunque contraddizione, bensì polare coimplicazione e ineliminabile reciprocità di elementi che dovrebbero di per sé escludersi a vicenda. E siccome, così intesa (compresa cioè sotto la specie della reversibilità tra parole e silenzio, tra detto e non detto), l’impostura non è il contrario della verità, essa è allora una forma paradossale della verità stessa, una ri-velazione, rimozione cioè del velo e al contempo nuovo velamento, come nell’intricata trama del “Consiglio”, dove l’abate Vella, facendo leva sul detto e sul non detto, interpola e stravolge una biografia araba di Maometto in una storia di Sicilia in lingua maltese, abrogando diritti abusivi (quelli dei baroni siciliani) con diritti inventati (quelli dei re normanni e dei loro molti successori) e così «rovesciando i termini» di un crimine secolare.

Certo: tutto questo non è un’apologia della verità, bisogna ammetterlo. E però nemmeno si può dire che la verità non rimanga in gioco, sullo sfondo, o in qualche piega riposta. O – più precisamente – nei panni altrui, in quelli della menzogna cioè, un po’ come il Serpotta che faceva posare le baldracche palermitane per scolpirle coi tratti delle virtù, metafora efficace ripresa da Sciascia.

L’esempio più positivo di questa tutto sommato non irredimibile impostura si può rintracciare nel verbale, «falso magistrale», che il capitano Bellodi – ne “Il giorno della civetta” – fa leggere all’omicida per convincerlo d’essere stato tradito dal suo complice e mandante. Un caso di «perfetta verosimiglianza» (parola che Sciascia usa manzonianamente, come ammette ne “La strega e il capitano”), in cui la verità c’entra analogicamente, ossia c’entra e non c’entra, perché essa rimane sempre più grande rispetto a ciò che pur le assomiglia.

Verrebbe da esclamare: come sono vere le cose false, anche se più tragicamente Sciascia arriva a dire, sulle labbra di don Antonio nel “Candido”, «come sono false le cose vere». E qui in Sicilia – oggi come ieri – più che altrove.

 

 

 

 

 

 

 

 

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