Il 10 e 11 maggio 2013 si è svolto presso la Facoltà Teologica di Sicilia il XIII Convegno di Teologia delle religioni dal titolo Il filosofare per le religioni nell’età post-secolare. I lavori sono stati introdotti da Massimo Naro, al quale abbiamo rivolto alcune domande.
(29 maggio 2013) – «Individuare uno strumentario in grado di far dialogare le religioni sulla base del “logos” inteso come il trascendentale della condizione umana»: questo l’ambizioso obiettivo del Convegno di Teologia delle religioni svoltosi presso la Facoltà Teologica il 10 e 11 maggio. Obiettivo tanto più ambizioso quanto si pone, come recita lo stesso titolo (Il filosofare per le religioni nell’età post-secolare), in un tempo, il nostro, in cui il religioso, lungi dall’essere ormai un ricordo del passato, torna prepotentemente sulla scena in forme e modi del tutto nuovi e tutti da pensare. Molti, e di grandissimo spessore, gli intervenuti al Convegno: per citare soltanto gli ospiti, Aguti (Urbino), Dotolo (Urbaniana), Stefani (Facoltà teologica Italia settentrionale), Totaro (Macerata) e Vigna (Venezia). Ha introdotto il tema del Convegno Massimo Naro, docente di Introduzione alla teologia e Teologia trinitaria presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia, dove tiene anche la docenza di Teologia del dialogo interreligioso. Abbiamo pensato di intervistarlo per farci restituire dalla sua viva voce le questioni e i nodi di un dibattito che è non solo urgente ma di importanza centrale per una definizione autentica dell’identità e quindi della convivenza tra gli uomini.
Come emerge dal titolo del Convegno, un autentico ricercare non può evitare di fare i conti con il tempo in cui si colloca. Quali sono, a suo giudizio, i tratti peculiari del nostro tempo? Cosa significa parlarne in termini di “età post-secolare”?
Partiamo dalla “notizia”che i sociologi ci hanno dato in questi ultimi anni: le religioni in Occidente non si sono estinte, ancorché siano state progressivamente, nei secoli scorsi, con ritmi sempre più incalzanti, ridotte ai margini della sfera pubblica, costrette tutte a rinunciare alla rilevanza politica ed etico-normativa che prima lungamente avevano avuto. Ragionando su questo fenomeno di persistenza, odi reviviscenza, Jürgen Habermas ha cominciato a parlare, nel crinale tra XX e XXI secolo, di un’età post-secolare, intendendola non come una de-secolarizzazione ─ termine che altri osservatori, come per es. Peter Berger, pure preferiscono usare ─ e men che meno come una restaurazione degli assetti sociali pre-secolari (pre-secolarizzati), piuttosto come un oltrepassamento della secolarizzazione, in una inedita congiuntura culturale in cui la secolarizzazione stessa non è più una situazione di fatto chiara ed evidente e nemmeno l’unico destino pronosticabile per il prossimo futuro, e in cui emergono nuove forme de-istituzionalizzate e spiritualizzate di religiosità che, d’altra parte, non compensano i vuoti e gli scompensi causati dal ridimensionamento effettivo delle grandi religioni.
La situazione, così, diventa sempre più complessa e proprio quando Charles Taylor la sua compiuta filosofia della secolarizzazione, c’è chi preconizza la «fine della teoria secolare». Se è vero ─ ha spiegato dal canto suo Gustavo Zagrebelsky ─ che nella modernità occidentale la vita sociale, nelle sue varie espressioni relazionali, politiche, economiche, tecniche, a livello teorico s’è gettata alle spalle le premesse metafisiche a cui erano ancorate le grandi visioni religiose del mondo, è altrettanto vero che permane un senso concreto di insoddisfazione che spinge chi vive nell’età post-secolare a rivolgersi ancora alle religioni per invocarne di nuovo le prestazioni comunitarie e gli interventi pubblici che già in passato esse avevano offerto e di cui oggi altre istanze sociali non riescono a garantire. In questo trend non sono coinvolti soltanto sporadici e inguaribili nostalgici. Si tratta di un bisogno sempre più diffuso, che spinge chi lo prova a uscire dalla dimensione privata e persino intimistica in cui nel regime di secolarizzazione sono generalmente vissute la fede e le credenze religiose, per comunicare con gli altri proprio a livello religioso, spesso con le risorse di inopinati linguaggi testimoniali. Quanto tutto ciò sia vero su vasta scala è dimostrato meglio che dalle indagini sociologiche da alcuni insistenti fenomeni di massa, come quello impersonato – per esempio – dal cantante irlandese Bono (Paul David Hewson), leader degli U2, figlio di padre cattolico e di madre protestante, che dopo essersi allontanato per tanto tempo da ogni tipo di pratica religiosa e da ogni tipo di appartenenza confessionale, non ha potuto infine fare a meno di lasciar spazio alla sua memoria credente nella propria produzione musicale, con brani diventati famosissimi come 40, che altro non è che la rivisitazione del salmo 40, con tutto il groviglio di invocazioni e di interrogativi radicali che in quella pagina biblica sono raggrumati.
L’età post-secolare è anche il tempo in cui l’afflato poetico degenera in irrazionalismo: l’epoca in cui rigurgitano fondamentalismi di varia matrice e in cui, al limite, la razionalità stessa degrada a calcolo stragista per nuove guerriglie di religione. Rimane, perciò, nell’età post-secolare, il bisogno e anzi l’urgenza di ricomprendere e di riesperire la pluralità delle concezioni e delle visioni di Dio non come motivo di scontro, bensì di incontro. È a questo nuovo e sano pluralismo che punta il cosiddetto dialogo interreligioso ed è in questo “senso” (in questa“direzione”) che le religioni debbono tornare ad essere considerate e vissute nel nostro mondo come occasioni di confronto.