Maria Patrizia Allotta, Anima all’alba, Edizioni Thule, Palermo 2012
(21 marzo 2013) – A leggere le poesie di Anima all’alba, l’ultima impresa poetica di Maria Patrizia Allotta, un elemento balza subito allo sguardo e merita prepotentemente attenzione: la presenza, costante, del paesaggio, di una natura che è nei testi, nell’autrice, fonte e luogo di nascita delle poesie dell’autrice, ma nello stesso tempo figlia e conseguenza di esse; a leggere i testi presenti nel volumeci si immerge in una realtà altra, a volte trasfigurata, trasognata, immaginata, una realtà che, però, tutt’ad un tratto si potrebbe quasi disegnare, colorare, in maniera talmente vivida l’autrice ce la mostra. Ma tutto ciò pone in essere una questione, forse la questione, la cifra stilistica che sottende al libro e che influenza scelte linguistiche, formali, contenutistiche: la presenza del paesaggio non è semplice descrizione, non è mera ipotiposi naturalistica fine a se stessa, ma immagine strettamente connaturata alla vicenda dell’anima dell’autrice. Il termine ‘connaturata’ dice, poi, davvero molto: moti dell’animo e del paesaggio sono della stessa natura, vivono della stessa carne, sono in stretta simbiosi, partecipano della stessa magia aurorale.
Ogni testo è ansia verso l’assoluto, inteso in senso sia spaziale che temporale, agognata meta che prima implica una dimensione corporale per poi sfociare in quella spirituale, tensione incessante verso la Bellezza. Ad intercalare i testi intervengono alcune fotografie di paesaggi, a loro volta corredate da didascalie: si tratta, come scrive Tommaso Romano nella postfazione al volume, di immagini che accompagnano e non illustrano; non si tratta, in effetti, di una semplice “spiegazione” grafica di ciò che i testi esprimono, ma proprio di un accompagnamento, di un’immersione che prima avviene con la lettura e che poi si completa attraverso l’estasi dello sguardo e il calarsi in quei paesaggi.
Ma carpiamone meglio il senso di queste intrusioni paesaggistiche. M. Jakob traccia molto bene la via sul concetto di paesaggio letterario: «i paesaggi letterari sono rappresentazioni in relazione spaziale con la natura, dove il termine ‘rappresentazione’ rimanda alla possibilità di esprimere con mezzi letterari l’illusorietà dell’impressione ricavata dalla natura». Inoltre, e questo è un punto nodale della questione, è necessario tener sempre presente l’interazione di un soggetto: è questo il senso di quanto detto poc’anzi, di paesaggio letterario in relazione spaziale con la natura. Il testo deve dunque, per rappresentare spazialmente la natura, appunto, «indicare una prospettiva dalla quale (e soltanto da essa) può emergere o dischiudersi un paesaggio [...] Il paesaggio letterario implica sempre la prospettiva di un osservatore o di una coscienza; esso emerge solo quando un soggetto guarda il mondo vis-à-vis, dove egli non è solo nel mondo, ma percepisce il mondo come ciò che si dispiega davanti i suoi occhi ed implica il primato della vista, l’organizzazione visiva degli elementi rappresentati da un punto prospettico centrale, che serve da punto di fuga all’intero testo».
Alla luce di queste fondamentali parole, leggiamo alcuni versi di Maria Patrizia Allotta per renderci conto di quanto detto; un testo di forte suggestività è Metamorfosi, di cui si propongono alcuni stralci:
Dal sorgere al tramonto
afa in agosto
Silenzio asfissiante
brucia anche
l’aria,
ogni contingente
sembra atrofizzarsi.
Sudore cade
come sangue in germoglio
di profonda ferita.
Eccessiva calura,
affanno,
quasi paura.
Insofferenza perenne,
pesante percezione
dell’esserci.
Improvvisamente rapimento
poi stasi
quindi sopore.
Meditazione.
Rossa energia
ora
scioglie artico gelo in vene
ingentilisce intime piaghe
slega livori
rivendica nuovo vigore
ridona grazia di vita
respiro […]
Meraviglia di stupore
avvenenza del nascere
tutta da concepire
Magico sole
sembianza d’Eterno.
Mio Divino
trattienimi.
Una poesia dai toni forti, dagli accorgimenti formali accurati, come quella struttura a scalini di luziana memoria che sembra quasi “disegnare” il paesaggio, un’estasi mistica che coinvolge ogni senso, una sinestetica polifonia di emozioni che nasce da un’osservazione naturalistica che pian piano invade l’animo e travolge il subjectus del componimento, colui che, seguendo l’etimologia latina del termine, è il soggetto dell’azione, ma allo stesso tempo è ‘assoggettato’, ‘passibile di’, colui che subisce la grandezza e la sublimità del luogo, tanto da trasformarsi, in esso, in sublimità d’animo.
La Poesia, diventa, così, un fattore totalizzante, un’esperienza mistica, religiosa, assoluta, è il linguaggio più adatto a riferire le avventure di un’anima, perché in essa si possono sciogliere più e più voci, più e più colori, infiniti sguardi e immense prospettive. Sembra quasi evidente come tutto il libro sottenda quell’idea di Infinito leopardiano, quel “mirare” più con l’animo che con lo sguardo: la dimensione corporale è sempre presente, è prima ogni membro fisico del corpo ad essere sopraffatto, è esso l’apertura verso il mondo “nuovo”, magico, etereo e “sovrumano”.
Così, si diceva in apertura, la presenza della natura, del paesaggio, influenza ogni tipo di scelta, lessicale, ritmica, formale: è un’invasione totale quella dell’esterno, è lì che l’anima di Maria Patrizia Allotta trova sede e ristoro, potendosi abbandonare alla riflessione, al canto, al pianto, al sorriso, al ricordo e a quella memoria dei tempi passati recuperati affinché vivano e rifioriscano nel presente.
Se LA risposta è in quel Mistero che Agostino aveva tracciato, anch’essa scaturisce fuori da queste scelte formali, da questi “disegni” che la poetessa imprime sulla pagina con candore e forza, con robusta levità in modo mai scontato, nell’ansia e nella tensione verso quell’Eterno spaziale e temporale che, forse, non è concepibile dall’uomo, ma che un’anima può assaporare nella perpetua alba della sua infinitezza.