Rocco Chinnici: «il giudice che sfidò gli intoccabili»

 


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Fabio De Pasquale - Eleonora Iannelli, Così non si può vivere. Rocco Chinnici: la storia mai raccontata del giudice che sfidò gli intoccabili, Prefazione di Pietro Grasso, Castelvecchi Editore, Roma 2013


 

(29 luglio 2014) - Riproponiamo questa recensione nel giorno del trentunesimo anniversario dell'attentato di Via Pipitone Federico a Palermo.

 

(22 giugno 2013) – Tentare di fare luce dopo trent’anni su uno dei primi delitti eccellenti di mafia non è compito semplice. Ci hanno tentato con lusinghieri risultati due giovani giornalisti, Fabio De Pasquale ed Eleonora Iannelli che nel libro Così non si può vivere, Rocco Chinnici: la storia mai raccontata del giudice che sfidò gli intoccabili, (Castelvecchi Editore, Roma 2013), hanno tirato fuori dall’oblio della storia documenti, rivelazioni, chiavi di lettura sull’attentato e sullo scenario di morte negli anni Ottanta a Palermo.

Il libro è stato presentato ieri nella sala gialla di Palazzo dei Normanni, con la partecipazione del presidente del Senato Pietro Grasso, del presidente dell’Ars, Giovanni Ardizzone, del pm della Procura di Palermo, Nino Di Matteo, dei figli di Rocco Chinnici e degli autori.

Dietro l’autobomba del 29 luglio 1983, che dilaniò sotto casa, in via Giuseppe Pipitone Federico, il capo dell’Ufficio istruzione, due carabinieri della scorta e il portiere, e ferì venti persone, c’era un patto scellerato tra mafia militare e potere politico-economico, ma anche un esempio inquietante di giustizia “sonnolenta”, un coacervo di misteri e depistaggi. Un diario autografo che accusa (questo sì, ritrovato) e una lettera del “papa” della mafia alla vedova. Si scopre perfino un filone di processo “dimenticato”, quello contro un giudice imputato di corruzione per aver “aggiustato” una sentenza. Per 200 milioni, come affermarono i pentiti, avrebbe assolto mandanti e killer della strage Chinnici, ma il faldone, trasferito per competenza dal tribunale di Reggio Calabria a quello di Palermo, sarebbe stato “insabbiato”. Il procedimento non venne mai iscritto a ruolo.

Dal libro emergono storie e fatti inquietanti. Nel Palazzo più esposto d’Italia, come lo definiva Borsellino, quello dei corvi e delle talpe, il fascicolo fu lasciato ad ammuffire per quindici anni. Solo oggi spunta fuori. Per caso. Si rimette in moto la pachidermica macchina della giustizia, ma l’imputato non c’è più. “Non luogo a procedere”. E la Procura non può far altro che archiviare. Con imbarazzo.

Il saggio, al di là dell’inchiesta, come spiegano gli autori, è un tributo a una vittima di mafia rimasta nell’ombra, a causa anche del lungo processo durato vent’anni, durante il quale i figli preferirono astenersi da dichiarazioni e commenti. Oggi, Caterina, Elvira e Giovanni Chinnici, assieme ai testimoni dell’epoca – magistrati, avvocati, investigatori e cronisti, sopravvissuti a quella stagione di sangue,– raccontano tutta la verità sulla strage “annunciata”, sull’isolamento e la delegittimazione fuori e dentro il Palazzo di giustizia, sulle lettere e le telefonate di minaccia in piena notte.

Rocco Chinnici era un giudice “non acchiappabile”, come lamentavano i suoi aguzzini, ideatore del pool antimafia, il capo di Falcone e Borsellino, l’autore dell’impianto di base del maxiprocesso, iniziato dopo la sua morte. Il primo a propugnare, e poi ad applicare, la legge Rognoni-La Torre sul reato di associazione mafiosa e sulla confisca dei beni. E soprattutto metteva il naso sugli affari dei colletti bianchi, gli “intoccabili”, sui loro patrimoni sospetti e sui conti in banca. Per questo motivo fu ucciso, per prevenire nuovi arresti, altri provvedimenti clamorosi che si accingeva ad emettere. Per fermarlo, prima che colpisse il “terzo livello” della mafia, quello rappresentato dal potere politico-economico.

Il presidente del Senato Pietro Grasso, ex procuratore nazionale antimafia, fu giovane collega del consigliere istruttore e ha curato la prefazione del libro. «Dava fastidio – ha raccontato nel corso della presentazione – pure il suo zelo nel divulgare la cultura della legalità in giro nelle scuole e nelle università. Chinnici amava incontrare i giovani, per parlare di antimafia, di lotta alla droga, di una Sicilia libera, quando ancora nessuno si sognava di farlo. Fu soprannominato il “giudice papà, perché fu testimone e maestro per tanti giovani magistrati che poco più che trentenni giungemmo a Palermo, bisognosi soprattutto di fare esperienza». Grasso, ha sostenuto l’importanza dell’azione di Rocco Chinnici perché intuì che bisognava colpire l’ordinarietà del potere mafioso, in cui «la criminalità è solo uno degli aspetti, anticipando così quel labirinto quotidiano degli affari e del potere che i processi successivi alla sua morte avrebbero svelato».

Sono stati proiettati filmati d’epoca, mentre in sottofondo si è ascoltato anche il contenuto di un’audizione segreta al Csm, in cui Chinnici sotto falso nome, già col fiato della mafia sul collo, chiedeva aiuto, raccontava delle minacce e del pericolo continuo per lui, Falcone e Borsellino. Si sfogava: “Così non si può vivere”.

Nel libro si ripercorre anche l’odissea giudiziaria, con dieci processi itineranti in cinque città, una tela di Penelope: condanne esemplari e poi clamorose assoluzioni. Infine, giustizia fatta, grazie alle dichiarazioni dei pentiti, ma solo parzialmente, con alcune “beffe” e zone d’ombra.

Nino Di Matteo, che fu pm nell’ultimo processo ha compiuto una accurata ricostruzione del clima di quegli anni, sostenendo che «il processo Chinnici fornisce il livello massimo di prova del coinvolgimento diretto, della compartecipazione, in una strage, di uomini esterni a Cosa nostra. Più che in qualunque altro processo è emerso il connubio tra mafia siciliana e Politica. Un legame che condizionava trent’anni fa, e credo abbia condizionato anche in tempi recenti, la democrazia del nostro Paese».

In appendice viene pubblicato, per la prima volta, il testo autografo del diario del giudice, un’agenda nella quale Chinnici annotava commenti e osservazioni estemporanee su vari episodi del Palazzo e sui rapporti con colleghi e superiori.

Particolarmente toccante l’intervento della figlia Caterina. Ha raccontato dell’eredità spirituale e morale che le ha lasciato il padre e del modo in cui l’ha tradotto nella sua vita e consegnata ai due figli «che entrambi vogliono seguire le orme del nonno in magistratura, pur non avendolo mai conosciuto».

«Anche il mio impegno politico svolto per tre anni nel governo della Regione Siciliana si colloca in questo solco – ha spiegato –, altrimenti non l’avrei fatto. Ho cercato da assessore di tradurre i principi e i valori che mio padre mi ha consegnato e che avevo espresso prima nel mio lavoro in magistratura e adesso ho ripreso. Trent’anni sono tanti ma la figura di mio padre mi è sempre presente: per questo ho cercato di rispondere all’interrogativo umano più forte: se perdonare i carnefici e i mandanti. Ci ho provato e continuo a provarci, ma non è una questione che si risolve una volta per sempre. Ti accompagna per tutta la vita. Mi è stata di grande aiuto la fede, ma alla fine la decisone è sempre personale, anche perché il perdono non si può né chiedere né tanto meno pretendere».

 

 

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