(12 marzo 2012) - Pubblichiamo il primo di una serie di articoli dedicati a Palermo e pensati per descrivere particolari itinerari della sua storia e della sua cultura. In questo contributo è narrato il patrimonio popolare di fede e memoria che è cresciuto nei secoli intorno alla devozione verso la “Santuzza” e che si ritrova nel corredo delle statue poste nel piano della cattedrale. Per delineare l’identità che Palermo ha raggiunto nel corso dei secoli, il prossimo articolo metterà a tema lo sviluppo urbanistico di questa città attraverso i Mandamenti. Nei successivi inserimenti saranno trattate le conseguenze esercitate sulla città dalle molte cifre artistiche e architettoniche intercorse nel tempo. Gli articoli sono a firma di Rita Martorana Tusa e sono il frutto della sua collaborazione al Centro Culturale “Il Sentiero” di Palermo (www.ilsentieropa.it). Ringraziamo entrambi. – Sicily Present
(1) Memorie dal piano della Cattedrale
Quando pensiamo ai Santi patroni di Palermo, oggi ricordiamo immediatamente solo Santa Rosalia, della quale tutti i palermitani conoscono almeno le notizie essenziali. Già più complicato, e per “addetti ai lavori”, è ricordare anche la presenza di quattro Sante – Agata, Ninfa, Cristina, Oliva – che per secoli sono state le protettrici della città, e che solo dopo la peste del 1624 sono state soppiantate dalla “Santuzza”. Sotto la loro protezione sono rimasti i quattro Mandamenti, i quartieri risultanti dal taglio della via Maqueda: Mandamento Palazzo Reale o Albergheria sotto la protezione di Santa Cristina, Mandamento Monte di Pietà o Capo con Santa Ninfa, Mandamento Tribunali o Kalsa protetto da Sant’Agata, Mandamento Castellammare o Loggia con Sant’Oliva. Ma tanti altri santi sono stati venerati nel corso dei secoli dalla Chiesa di Palermo, santi che oggi sono pressoché dimenticati, e insieme a loro gran parte del patrimonio di fede del popolo. Basti solo ricordare che nel secolo XVIII la nostra città contava quindici santi principali e venti santi ordinari. La venerazione dei santi patroni, siano essi della città, di un quartiere, di una corporazione o confraternita, è l’espressione infatti della religiosità più autentica di un popolo, per il quale la santità rappresenta la stoffa della vita cristiana e costituisce il reale compimento dell'umanità di ciascuno.
Ma cosa lega Agata, Ninfa, Cristina e Oliva alla città di Palermo, tanto da esserne diventate le patrone? Quali altri santi sono legati alla Chiesa di Palermo e alla storia della città? Un ideale itinerario di riscoperta dei santi palermitani, delle figure delle Sante patrone di Palermo, ma anche dei santi nati o vissuti o Palermo, e delle tracce devozionali, culturali e artistiche che il loro culto ha lasciato per tornare alle origini della religiosità più autentica della nostra città, per secoli radicata profondamente nella storia e nelle tradizioni, non può non avere come punto di partenza la Cattedrale, da sempre fulcro della vita religiosa della città, e luogo principale della memoria e del culto dei santi patroni.
Il “Piano della Cattedrale” infatti, usato nel corso dei secoli come cimitero, fiera, luogo di feste con apparati spettacolari e tribunale pubblico, mostra sulle recinzione marmorea che lo racchiude le statue di tutti i santi palermitani. Esse sono rivolte verso il Cassaro e danno le spalle alla Cattedrale, quasi poste a vegliare sulla città e a custodire e proteggere i suoi abitanti. La grande spianata antistante il fianco meridionale della chiesa era stata ampliata alla metà del XV secolo, e racchiusa da una balaustrata nel secolo successivo. Alla metà del XVII secolo l’architetto del Senato Gaspare Guercio ne progettò la sistemazione definitiva realizzando la recinzione con le statue delle Sante patrone e di altri Santi particolarmente legati alla storia della città: San Mamiliano, San Sergio, Sant’Agatone, Santa Silvia, e i Santi Eustozio (o Eustorgio), Procolo e Golbodeo. Si tratta di personaggi vissuti nell’età paleocristiana o nell’alto Medioevo, comunque tutti legati alle radici della chiesa palermitana.
Le statue furono realizzate dai maggiori scultori dell’epoca, tra cui ricordiamo Gaspare Guercio che eseguì le statue di Santa Rosalia, Santa Ninfa e Sant’Oliva; Carlo d’Aprile che fu incaricato di eseguire le statue di Sant’Agata, Santa Cristina, Santa Silvia, San Sergio e Sant’Agatone; Giovan Battista Ragusa che realizzò la statua di San Francesco di Paola, e Giovanni Travaglia che scolpì le figure di Sant’Agostino e San Mamiliano. Non manca comunque, in posizione preminente in asse con il portico meridionale, la statua di Santa Rosalia che si erge sulla «macchina marmorea» eretta nel 1745 da Vincenzo Vitagliano al centro del “Piano”.
All’interno della chiesa Cattedrale la memoria dei santi patroni è custodita nella Cappella delle reliquie, che venne allestita dal Cardinale Lualdi nel 1912 con lo scopo appunto di custodire le urne – risalenti al XVI e XVII secolo – dei santi palermitani, e lungo le cui pareti è posta la seguente iscrizione: «Ai fiori della Chiesa Palermitana / né le rose mancano né il gigli; / della loro santità esulta il cielo; / del loro patrocinio la nostra terra si allieta». Le storie della vita e dei miracoli di questi santi sono testimoniate per lo più da antichi martirologi e da racconti popolari, e spesso affondano le loro radici nella leggenda.
Santa Oliva nacque a Palermo nel 448 da una famiglia nobile convertita al cristianesimo, e si narra che fosse una fanciulla di rara bontà e bellezza, la quale fin da bambina aveva fatto voto di verginità consacrandosi a Dio. Quando nel 454 i Vandali conquistarono la Sicilia iniziò un periodo di persecuzioni per i cristiani, ma Oliva non volle rinnegare la sua fede. Per questo venne esiliata a Tunisi dove convertì numerose persone e operò diversi miracoli. Il governatore di Tunisi allora pensò di sbarazzarsi di lei abbandonandola nel deserto affinché venisse divorata dalle belve feroci o morisse di fame. Oliva invece ammansì le belve e in quel deserto visse parecchi anni. Un giorno alcuni cacciatori la scoprirono e cercarono di violentarla, ma furono convertiti anche loro. Il governatore allora la fece ricondurre in città e la sottopose a diversi tormenti ai quali Oliva sopravvisse, fino a quando fu decapitata, il 10 giugno del 463. Secondo la tradizione dopo la morte il suo corpo fu rapito da alcuni cristiani e fu sepolto segretamente a Palermo, in un luogo presso le mura della città che la tradizione ha da sempre identificato con il piano di Sant’Oliva (oggi piazza S. Francesco di Paola). Il suo corpo è custodito secondo la tradizione nella cappella a lei dedicata nella chiesa di San Francesco di Paola, in quello che viene definito «il pozzo di Sant’Oliva» anche se le ossa della santa non sono state mai trovate; quando il corpo sarà trovato, un cataclisma funesterà la Conca d'Oro, ma segnerà anche il principio di un'era di felicità.
Una leggenda simile era diffusa anche a Tunisi, dove esiste ancora una moschea che porta il nome di «Jāmi al-zaytūna», ovvero «Moschea dell'oliva»: questo perché in quel luogo era stata eretta una chiesa, che poi gli arabi convertirono in moschea, lasciandone però il nome tradotto in arabo; si crede che quando verrà rinvenuto il suo corpo l’Islam avrà fine. Il suo culto si diffuse in epoca normanna, mentre le notizie sulla sua vita compaiono in alcuni testi a partire dal XIV e XV secolo; la più antica raffigurazione della santa si trova in una piccola tavoletta del XII secolo conservata al Museo Diocesano di Palermo. I suoi attributi sono il ramoscello d’ulivo che allude al suo nome, e il turbante che ricorda il soggiorno a Tunisi.
Sant’Agata, vissuta nel III secolo, viene venerata come patrona perché ritenuta di origine palermitana, anche se la sua nascita viene contesa tra palermitani e catanesi: la sua casa sarebbe stata nella contrada della Guilla, dove già in epoca normanna esisteva la chiesa dedicata alla santa denominata appunto di Sant'Agata alla Guilla, e nella chiesa di Sant'Agata la Pedata si venera il sasso dove la santa lasciò le impronte dei piedi andando al martirio. Sant'Agata, consacratasi a Dio all'età di 15 anni, doveva avere circa 21 anni all’epoca del suo martirio. La tradizione orale catanese, i documenti agiografici e le raffigurazioni iconografiche che la raffigurano con la tunica bianca e il pallio rosso, testimoniano che era stata consacrata diaconessa. Nel 250 fu inviato a Catania il proconsole Quinziano il quale cercò di ottenere da Agata che abiurasse la sua fede. Agata rifiutò, e allora il proconsole la consegnò alle sacerdotesse di Venere, le prostitute sacre, perché vincessero le sue resistenze; ma Agata fu salda nella fede, e le sacerdotesse la riconsegnarono a Quinziano senza avere ottenuto nulla. Il proconsole allora, dopo un processo nel quale Agata si difese facendo sfoggio di abilità retorica, la fece imprigionare e sottoporre a diverse torture, culminanti nell’asportazione delle mammelle con delle tenaglie. Ma dopo questo martirio la santa fu visitata nel carcere da san Pietro che le risanò le ferite. Fu infine arsa viva sui carboni ardenti, e si racconta che quando morì a Catania la terra tremò. Dopo la sua morte i suoi amici più fedeli chiesero e ottennero il suo corpo che fu seppellito in un luogo segreto. Nel 1040 Giorgio Maniace, che era stato inviato in Sicilia dall’imperatore di Bisanzio, tornando in patria ne trafugò le spoglie, ma nel 1126 due soldati dell'esercito bizantino le rapirono nuovamente per consegnarle al vescovo di Catania. Il 17 agosto 1126, le reliquie rientrarono nel duomo di Catania. L’attributo principale di Sant’Agata è il piatto su cui reca le mammelle che le furono recise durante il martirio, talvolta accompagnato dalle tenaglie, e spesso indossa una veste bianca con manto rosso allusiva alla sua condizione di diaconessa. Nella Cattedrale di Palermo si conserva la reliquia del suo braccio.