(6 febbraio 2014) – L’associazione “SiciliaAntica” svolge, con autentico spirito volontario, un’intensa attività culturale in vari campi, tra i quali quello dell’archeologia e del recupero delle tradizioni e dei costumi dell’isola. Da ultimo, in collaborazione con la Facoltà di Lettere dell’Università degli studi di Palermo, ha organizzato un ricco e variegato ciclo di conferenze sui beni etnoantropologici, coordinato dal dirigente dell’Abatellis Claudio Paterna.
Particolare successo ha riscosso il recente incontro sull’abbigliamento siciliano tenuto al Museo delle Marionette con la lezione di Maria Teresa Di Blasi, eclettica studiosa della Sovrintendenza di Catania.
Maria Teresa Di Blasi, archeologa ma anche cultrice del costume, ha acceso l’interesse e la curiosità della vasta platea tracciando un panorama dell’abbigliamento siciliano ravvivato da colti riferimenti letterari e da “chicche” quasi inedite.
L’abbigliamento siciliano ha intrigato i viaggiatori di fine Settecento e Ottocento, e tra di essi soprattutto Houel, che con i suoi disegni ha contribuito a diffondere in Europa i costumi isolani dell’epoca. Tra le annotazioni di Houel una in particolare, riferita dalla Di Blasi, colpisce per la sottigliezza psicologica tipica di uno scrittore: quella in cui sottolinea come le donne siciliane fossero assai abili nel coprirsi e scoprirsi coi veli che le avvolgevano nel gioco, o se vogliamo nell’arte, della seduzione.
Quegli abbigliamenti tradizionali divennero col tempo degli stereotipi del folklore. I mantelli dei contadini, marinai, briganti siciliani, le vesti e i veli delle ragazze dell’isola si affermarono nella moda e furono poi riprodotti su porcellane preziose e sulle figurine in terracotta di Caltagirone.
Contributi notevoli alla diffusione dei costumi tipici siciliani li resero successivamente Salomone Marino e, soprattutto, Pitrè, che nella loro ricerca dell’anima popolare della Sicilia si soffermarono sull’abbigliamento tradizionale. Molte testimonianze su questo aspetto non secondario della cultura popolare siciliana si trovano nelle collezioni allestite dal Pitrè, che nel 1909 diedero vita al museo etnografico che porta il suo nome e che, dopo la sua morte e un periodo di abbandono, furono riconsegnate al pubblico grazie all’iniziativa del Cocchiara.
Più tardi, secondo quanto rivelatoci dalla Di Blasi, fu una costumista di talento oggi poco ricordata, Emma Calderini, a condurre una vera e propria ricerca filologica sui costumi tramandatici dal Pitrè, che vennero riprodotti nei suoi disegni.
Dopo, la fortuna dell’abbigliamento tradizionale siciliano fu legata alla fotografia, al teatro e, soprattutto, al cinema. Un po’ meno alla letteratura.
Sul punto la conferenza della Di Blasi ha rievocato il rapporto di Verga e Capuana con la fotografia. Secondo quanto raccontato dalla Di Blasi, che si è avvalsa di fonti preziose quanto rare (tra cui i saggi, oggi introvabili, di Andrea Nemiz), a differenza di Capuana, Verga snobbava la fotografia. Pare addirittura che lo scrittore de I Malavoglia paragonasse le fotografie alle prostitute, definendole «disdicevoli per quanto a volte necessarie…». Quando la storica casa editrice Treves volle pubblicare un volume illustrato di Vita dei campi, per i disegni si rivolse all’artista ferrarese Arnaldo Ferraguti. Che si trovò di fronte un lavoro piuttosto difficile. Nelle novelle di Verga, infatti, non si prestava attenzione all’abbigliamento dei contadini che ne erano protagonisti, ma ai luoghi e ai loro profili psicologici. Per soccorrere Ferraguti nella sua laboriosa illustrazione Verga gli spedì il solo materiale di cui disponeva: due lastre, una in cui erano rappresentate delle donne in abito da cerimonia, un’altra con un gruppo di uomini nei costumi dell’epoca. Da quelle lastre, che ebbero grande diffusione, Ferraguti si ispirò per le illustrazioni di Vita dei campi.
Nel campo della fotografia si deve a Francesco Brosetti uno studio attento, in cui l’intento antropologico prevale sul folklore, sull’abbigliamento popolare siciliano.
La catanese Maria Teresa Di Blasi ha infine stuzzicato il numeroso e attento pubblico del Museo delle Marionette intrattenendolo su un’usanza che dal ‘500 all’’800 ricorreva per la Festa di Sant’Agata: quella delle ‘ntuppatedde. Le ‘ntuppatedde erano le donne che si coprivano di un grande mantello, di regola nero, e andavano, col volto nascosto, liberamente in giro a solleticare e provocare, con un’inversione di ruoli, gli uomini. Le donne mascherate facevano le loro conquiste e in tal modo consumavano veri e propri tradimenti legittimati dal cosiddetto diritto delle ‘ntuppatedde. Ed è così che nascevano i figghi di mascariati, che venivano legalmente riconosciuti. L’usanza e il diritto delle ‘ntuppatedde, che ha ispirato la novella di Verga La coda del diavolo, si è poi trasferita, ed è tuttora viva, a Paternò. L’uomo da cacciatore diventa preda e, vendetta delle femministe (che la di Blasi ci ha svelato essere sempre esistite), è cunnutu, paciusu e cuntentu.