“Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato?”. Convegno di studi a Palermo

 

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(24 febbraio 2015) – A Palermo, presso l’Aula Magna della Facoltà Teologica di Sicilia (via Vittorio Emanuele 463), giovedì 26 e venerdì 27 febbraio 2015 si svolgerà il convegno di studi “Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato? Le migrazioni attraverso il Mediterraneo come frontiera di una nuova convivenza umana”.

Qui il programma.

 

Pubblichiamo la relazione introduttiva di Massimo Naro alla sessione mattutina di venerdì 27 febbraio.

1. È difficile formulare una definizione del fenomeno che da decenni ha luogo sotto i nostri occhi, proprio sulle sponde della nostra Sicilia, qui, al centro del Mediterraneo: le migrazioni verso il continente europeo di centinaia di migliaia di persone provenienti dall’Africa e dall’Asia.

Si tratta, difatti, di un fenomeno complesso, che rappresenta l’esito controverso di un groviglio di con-cause, espressioni queste – a loro volta – di motivazioni eterogenee, ciascuna connotata da profili peculiari e, perciò, differenti, che finiscono però per giustapporsi indistintamente – meglio sarebbe dire: per confondersi – nel grande dramma in cui le migrazioni stesse culminano.

Possiamo davvero dire che queste migrazioni costituiscono – come affermano alcuni allarmati osservatori – un massiccio e massivo tentativo di invasione dell’Europa da parte di criminali consorterie islamistiche e jihadiste che attualmente fanno il bello e il cattivo tempo nei territori da cui si muovono tutte queste persone che giungono fino a noi? Le donne e i bambini, i giovani soprattutto, che sbarcano – ridotti allo stremo e, spesso, persino privi di vita – sono emissari di quelle consorterie e di quei sedicenti nuovi califfati? Sono la loro quinta colonna o, almeno, la loro incontenibile avanguardia? Oppure sono profughi che fuggono dalla protervia di quelle consorterie e dai guasti sociali e politici da esse innescati nei loro Paesi di origine? Sono soldati e terroristi sotto mentite spoglie, oppure sono le prime vittime dei soldati e dei terroristi che hanno scatenato la guerra nei luoghi da cui si sono sentiti costretti ad allontanarsi? Sono pericolosi clandestini oppure ospiti inermi, per riprendere il titolo della riflessione svolta all’inizio del nostro convegno dal maestro Moni Ovadia, riecheggiante una battuta tratta dal film di Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone? Oppure – ancora – tra gli inermi ospiti si insinuano pericolosi clandestini?

Orientando la nostra riflessione in un’altra prospettiva, possiamo forse dire che queste imponenti e insistenti migrazioni sono l’indizio, del resto ormai macroscopico, del fatto che la crisi economica globale ha effetti collegati e che ogni scompenso da essa prodotto riverbera – con distruttiva forza d’urto – a distanze chilometriche, contagiando così a macchia d’olio nel mondo intero il disagio e, anzi, il disastro? Le persone che arrivano sino a noi affamate e assetate, nude e anzi spogliate d’ogni loro residuo bene personale, vengono a rivendicare ciò che è stato loro tolto (e non soltanto dagli spregiudicati mercanti di carne umana che li hanno condotto sin qui)? O vengono a pretendere qualcosa che non spetta loro e che, comunque, noi non possiamo garantire? Oppure, paradossalmente, vengono a ridare un po’ d’ossigeno alle stagnati economie del vecchio continente, stimolandole a rimettersi in moto, a riorganizzarsi su scala mondiale, a rivedere accordi e a riavviare convenzioni internazionali?

E ancora: possiamo dire che le migrazioni che oggi sboccano nel Mediterraneo sono anche espressione di uno scomposto pluralismo religioso, che si dimostra refrattario a lasciarsi incanalare dentro l’alveo del dialogo? di un pluralismo religioso, cioè, attraversato da tensioni polemiche che rischiano di mettere a dura prova la disponibilità al confronto e l’attitudine all’incontro che le stesse “religioni”, per loro costitutivo statuto, dovrebbero in qualche misura custodire ed esercitare?

2. È davvero difficoltoso già solo individuare e distinguere tra di essi questi interrogativi: immaginiamo, perciò, quanto ancor più difficile sarà fornire ad essi delle risposte…

Con questo nostro convegno, noi tentiamo – innanzitutto e almeno – di farci queste domande, al di là di ogni pur sempre possibile pregiudizio e preconcetto.

Facendo tale tentativo, prendiamo in consegna l’appello a riscoprire e a rivalutare l’umanesimo sempre nuovo, cioè sempre bisognoso di essere verificato e, perciò, di essere inverato, a partire da Cristo Gesù e in vista di Cristo Gesù, che i vescovi italiani hanno lanciato nei mesi scorsi guardando al V Convegno Ecclesiale Nazionale che si terrà a Firenze nel prossimo novembre. Nell’Invito al Convegno e nella Traccia preparatoria di Firenze 2015 si possono difatti ritrovare alcuni spunti interessanti per ripensare la possibilità e la necessità di un umanesimo concreto, da intendere e da vivere come un umanesimo della prossimità, della proesistenza, dell’esistere per gli altri e non per sé soltanto.

Il nostro convegno tenta di sviluppare proprio uno di questi spunti, rintracciabile in una delle pagine centrali della Traccia: «Con Gesù non ci troviamo, […], dinanzi a un uomo che brama di primeggiare sugli altri uomini (“Tra di voi non sia così”, dice il Salvatore ai suoi discepoli secondo il racconto dei vangeli sinottici, in Mt 20,24-28, Mc 10,41-45 e Lc 22,24-27), bensì a un uomo che è nella condizione umile e umiliata del condannato. La kenosis, lo svuotamento di sé, l’uscita da sé, è il primo paradigma di un umanesimo nuovo e “altro” e la via paradossale […] capace di costruire fraternità. Non si tratta però, come molti superficialmente ritengono, di accettare una visione vittimistica e, forse, pessimistica dell’umano. Si tratta piuttosto di uscire dallo schema mondano vincitori/vinti, per assaporare su un piano diverso la bellezza della lieta notizia: mentre è inchiodato sulla croce (sul legno), e dunque sconfitto agli occhi del mondo, Gesù viene anche innalzato da terra e ricondotto alla gloria del Padre (cf. Gv 8,28 e Fil 2,9-11). Nella vicenda pasquale del Crocifisso Risorto ogni uomo ferito, reietto, rifiutato, emarginato, scartato, è anche “più uomo”, abbracciato nella figliolanza del Figlio, vivificato dal suo stesso Spirito che torna a gridare gioioso nel cuore di molti: “Abbà, Padre” (cf. Rm 8,15-16 e Gal 4,6). In Gesù Cristo, dunque, la verità dell’uomo è manifestata al pari di quella di Dio. Essa, tuttavia, non è immediatamente evidente. Difatti, quest’umanesimo segnato dal paradosso non è scontato e ovvio; occorre discernerlo dentro le pieghe e le piaghe della storia, come esige il Vangelo di Gesù che, alla domanda di chi chiede al Figlio dell’Uomo “quando mai ti abbiamo visto?”, risponde: “Ogni volta che l’avete fatto a uno di questi fratelli più piccoli” (Mt 25,37-40)».

L’attitudine alla proesistenza e alla prossimità sottrae alla inevidenza l’umano autentico, quello impersonato da Cristo Gesù. È nel vissuto umano di Gesù, che costituisce il fondamento dell’umanesimo sempre nuovo di cui sto parlando, che traspare questa attitudine alla proesistenza e alla prossimità: egli è la visita di Dio agli uomini, l’avvento di Dio nelle periferie da Lui più lontane, sin dentro alla condizione umana, sin dentro al peccato e alla morte causata dal peccato: l’inno paolino di Fil 2 annuncia tutto questo. La kenosis, di cui parla san Paolo, non è semplicemente un’umiliazione nel senso in cui noi intendiamo comunemente questa parola: è innanzitutto la prossimità che Dio sceglie di vivere, in Cristo Gesù, nei confronti degli uomini; è una ben precisa maniera di mettersi in relazione, di porsi in rapporto, di farsi prossimo a chi è abissalmente distante, di amarlo radicalmente non solo mettendosi al suo posto, ma anche mettendolo al proprio posto, abbassandosi sino a lui e innalzandolo sino a Sé, assumendo la sua esigua misura e però partecipandogli la sua più alta statura.

C’è in gioco il fondamento del nostro esser-umani. Lo stesso san Paolo ce lo annuncia: «L’amore di Cristo ci afferra e ci possiede» (2 Cor 5,14: he agape tou Xristou sunechei emas). La voce verbale sunechein era stata usata già dai filosofi pre-socratici, per i quali l’essere in quanto tale è il fondamento di ogni cosa che vediamo e viviamo: to einai – o on – sunechei emas, l’essere ci avvolge e ci sostiene. San Paolo inaugura una nuova ontologia “agapica”, su cui fa leva l’umanesimo rinnovato su cui mi sto permettendo di insistere. Proprio questa nuova ontologia “agapica”, inaugurata da san Paolo, in cui l’uomo è innestato tramite Cristo Gesù, è l’arché, il principio e il fondamento, dell’autentico umanesimo. Il quale, perciò, non rimane astratto, non si limita a essere un bell’ideale, non scivola nell’ideologia. Esso, come affermavo prima, è concreto.

Italo Mancini, in un suo breve ma denso volume, suggestivamente intitolato Tornino i volti, ci ha aiutati già qualche anno fa a comprendere l’importanza di questa prospettiva: «[…] occorre un modo di vivere che sia “altrimenti che essere”. Non un essere altrimenti, che sempre forma di essere è, e nonostante tutto, non ci fa uscire dalla logica di morte, di guerra e di prepotenza. Non essere altrimenti, ma altrimenti dall’essere. Altrimenti dall’essere vuol dire che al posto della vita basata sul potenziamento di sé, compresa la riduzione dell’altro a sé, si deve vivere il radicale faccia a faccia con l’altro, che esalti la nostra giustizia verso di lui senza alcuna pretesa di reciproca […] quello che conta è che io realizzi almeno quanto a me questo dovere e questa moralità, di far scomparire il mio diritto e di far confluire tutto sul diritto altrui. Mettendo l’altro al posto dell’io».

Questa esigente concretezza agapica si traduce in ciò che, guardando al vissuto umano di Gesù, possiamo chiamare la “cura” o, più precisamente, il “prendersi cura”. Lo sottolinea la Traccia: se si leggono nell’originale greco i racconti evangelici delle guarigioni compiute dal Maestro di Nazareth per le strade di Palestina, «ci si accorge che spesso la voce verbale usata per dire che Gesù guariva coloro che incontrava è terapéuo, che significa letteralmente curare, prendersi cura. La cura, dunque, esercitata secondo lo stile di Gesù, è una coordinata imprescindibile dell’esser-uomo come lui. Essa significa custodire, prendersi in carico, toccare, fasciare, dedicare attenzione, proprio come faceva Gesù», ogni volta che si fermava ad ascoltare il grido di chi lo rincorreva per strada, o quando incrociava lo sguardo di chi si aggrappava a lui, «o quando soccorreva il paralitico sempre da tutti emarginato presso la fonte di Betzaetà». «E come ancora il cristianesimo fa sin dai suoi inizi, con lo sguardo e l’attenzione che Pietro e Giovanni rivolgono al paralitico presso la Porta Bella del Tempio (cf. At 3,1-10) o con la testimonianza di Paolo che si fa compagno di strada di tutti, senza riserve e senza parzialità di alcun genere, sottoponendosi alla legge e al contempo proclamandosi un fuori legge, facendosi debole e servo di tutti (cf. 1 Cor 9,19-22)».

Questo umanesimo concreto non può non esprimersi nella diaconia, nel servizio, secondo la prospettiva magisteriale che l’«appello all’umano», lanciato  nell’Invito, recupera succintamente: «Pensiamo all’attenzione verso le “realtà nuove” auspicata già da Leone XIII, al richiamo in favore della “causa dell’uomo” risuonato nei famosi radiomessaggi natalizi di Pio XII, alla discussione sui temi della giustizia sociale, della solidarietà economica, del rispetto per i più deboli, della pace tra i popoli, avviata in encicliche che hanno segnato un’intera epoca come la Mater et magistra e la Pacem in terris di Giovanni XXIII, o la Populorum progressio e l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI, per giungere alla Redemptor hominis, alla Centesimus annus, alla Veritatis splendor di Giovanni Paolo II e alla Caritas in veritate di Benedetto XVI». A questi titoli, ora, possiamo senz’altro aggiungere quello dell’esortazione apostolica di papa Francesco Evangelii gaudium. È un orizzonte largo e articolato, che converrebbe perlustrare con attenzione, per rintracciarvi eventuali suggerimenti ancora attuali e validi. Il più efficace di questi, rimane in ogni caso – secondo l’Invito – quello dettato da GS 46, «lì dove il Concilio “attira l’attenzione su alcuni problemi contemporanei particolarmente urgenti”, invitando a considerarli “alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana”. Tra i “problemi” ci sono, per esempio, quelli della cultura, dell’economia, della politica, della convivenza sociale. Di questi problemi, secondo il Concilio, occorre maturare un’intelligenza credente, in forza cioè dell’intreccio reciproco tra fede e ragione, e ancor più radicalmente in forza dell’intreccio tra il dirsi di Dio e il vissuto dell’uomo». Ciò che si può rilevare a partire da questa indicazione conciliare è che l’umano non è avulso dall’orizzonte di Dio, da cui anzi è sostenuto e prima ancora costituito. Giustamente l’Invito annota: «Così l’umano – considerato alla luce del Vangelo – viene da ogni lato raggiunto da Dio».

3. Assecondando questo appello all’umano, nel nostro convegno tentiamo di verificare in che senso ragioni dell’uomo e prassi ecclesiale possono e devono oggi incontrarsi. Tentiamo, quindi, di far dialogare competenze e saperi differenti, dalla sociologia alla politica internazionale, all’economia, per proiettarci con cognizione di causa verso quelle che papa Francesco chiama “periferie esistenziali”: nel nostro caso – per la nostra peculiare posizione mediterranea sulla linea di confine fra tre continenti, l’Europa, l’Africa e l’Asia – la frontiera drammatica delle migrazioni dai continenti poveri verso l’Occidente. Applicando il suggerimento metodologico di GS 46, secondo cui oggi più che mai è urgente considerare ogni aspetto – positivo o negativo, lieto o drammatico – della vita umana «alla luce del Vangelo», vogliamo elaborare un’ermeneutica teologica del fenomeno delle odierne migrazioni di cui il Mediterraneo è tragico scenario, per ricomprenderlo come uno dei “segni dei tempi” che annunciano l’esigenza di reinterpretare ormai l’esser-umani nella prospettiva di una solidale convivenza.

La comprensione teologica, tuttavia, deve risultare da un confronto interdisciplinare con altri saperi che possono certamente aiutare la teologia stessa a focalizzare le diverse sfaccettature del fenomeno, nei suoi profili sociale, economico, politico, giuridico, etico, religioso. Per questo motivo abbiamo invitato i relatori che prenderanno nel corso del convegno la parola.

 

 

 

 

 

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