Da oggi ospitiamo una serie di commenti alla lettera dei Vescovi siciliani dal titolo: “Convertitevi”, scritta nel 25° anniversario del discorso di San Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, in attesa della visita che papa Francesco farà a Palermo il prossimo 15 settembre.
Iniziamo con il giudice Giovanbattista Tona, Consigliere di Corte d’Appello al Tribunale di Caltanissetta che, quale Presidente dell’A. N. M. di Caltanissetta, ha curato l’edizione commentata delle due relazioni di Rosario Livatino, pubblicata nel 2012 dalla Casa editrice Salvatore Sciascia con il titolo “Non di pochi ma di tanti. Riflessioni intorno alla giustizia”. Inoltre, come consulente della Commissione antimafia nella scorsa legislatura ha collaborato all’attività di ricerca e selezione dei documenti giudiziari riguardanti l’omicidio di Rosario Livatino. Questo lavoro, tra l’altro, ha costituito uno dei momenti preparatori dell’udienza speciale di Papa Francesco dedicata alla Commissione antimafia presso la Sala Clementina il 21 settembre 2017 proprio in occasione del 27^ anniversario dell’assassinio di Livatino.
Innanzitutto, come ricorda quel giorno? Dov’era, e che percezione ha avuto di quelle parole?
Il 10 maggio avrei dovuto partecipare alla celebrazione eucaristica del Papa allo stadio Pian del Lago di Caltanissetta e seguivo frattanto le tappe precedenti del suo viaggio. Il giorno prima quindi ero davanti alla TV per vederlo officiare la Messa alla Valle dei templi. Ma il mio atteggiamento era condizionato dal fatto che una trasmissione televisiva non mi avrebbe potuto coinvolgere quanto l’esperienza che avrei fatto il giorno dopo, l’essere cioè presente lì nel luogo dove il Papa si sarebbe trovato a parlare verso di noi. E invece quando a sorpresa Papa Wojtyla pronunciò quelle parole vibranti, si dissolse davanti a noi, che non eravamo presenti, l’apparecchio televisivo dal quale fuoriuscivano. Mi sentii lì presente davanti al Papa e sentii Lui presente davanti a tutti i siciliani ai quali augurava la Concordia, sferzando uomini, associazioni umane e mafie che si permettevano di uccidere esseri innocenti e di violare il diritto santissimo di Dio. Sentii parole che non erano mai state dette in quel modo; sentii l’amore e al contempo l’indignazione di un Testimone della Fede, consapevole della necessità di esprimere quanto la Chiesa portava dentro ma non aveva ancora espresso con l’urgenza richiesta dalla storia.
A suo giudizio come hanno influenzato la società siciliana nei 25 anni trascorsi?
Giuseppe Carini, uno dei ragazzi di Brancaccio che lavorava in parrocchia con Padre Puglisi e che dopo il suo assassinio divenne testimone di giustizia sottoposto a protezione, ha raccontato: “l’incontro col Santo Padre ci caricò come molle quando tuonò contro la mafia... ci trasmise un’energia pazzesca”. Padre Puglisi non andò con i giovani della sua parrocchia ma al ritorno disse loro: “...siete tornati così pieni di energia. Adesso andate a riposare. Da domani potremo continuare a lavorare ancora meglio”. Questa energia, questa forza, questo prorompente flusso di Spirito Santo è stato per tanti anni, dentro e fuori la Chiesa, in Sicilia e non solo, il sostegno per chi ha cercato di opporsi alle prevaricazioni mafiose, lo stimolo per chi ha voluto resistere al serpeggiare della mentalità mafiosa, l’ostacolo insuperabile per chi volesse negare l’incompatibilità della militanza mafiosa con il Vangelo.
La lettera dei Vescovi siciliani era necessaria per commemorare l’evento, cioè per non perdere la memoria, o per rilanciare il discorso nel contesto attuale?
La lettera dei Vescovi era necessaria per rinnovare e continuare ad alimentare questa energia. Il compianto Mons. Cataldo Naro ci ha spiegato che il grido di Papa Wojtyla ad Agrigento ha insegnato alla Chiesa siciliana a rifiutare la mafia e a chiedere giustizia, ma con parole e categorie cristiane, invocando il pentimento, la conversione, il giudizio di Dio. E i Vescovi oggi non fanno solo memoria di un momento di grazia per la Chiesa siciliana, ma rinnovano questa opera di doppia contestualizzazione nella condanna della mafia, sia rispetto alle categorie evangeliche sia rispetto alla storia.
I Vescovi mostrano di cogliere i cambiamenti del fenomeno mafioso dal 1993 ad oggi e al contempo i mutamenti della società e puntano molto sui profili pedagogici. Una grande sfida viene proposta quando si evidenzia la necessità di rivolgere - senza risparmio di energia e senza timore di essere inopportuni - inviti alla conversione alle persone che condividono mentalità e pratiche mafiose, di sollecitare in loro un profondo ripensamento e un riavvicinamento ai valori evangelici, prima ancora di insistere sulle pur necessarie scomuniche.
Nel documento dei Vescovi si dice che bisogna: “mettere il popolo credente nelle condizioni di discernere tra fatti di cronaca e segni dei tempi” e come esempio si cita l’omicidio del giudice Rosario Livatino. Che ricordo e che giudizio ha di quel suo collega?
Non ho conosciuto Rosario Livatino perché quando fu assassinato studiavo all’università ma, come molti giovani dell’epoca e come molti altri colleghi, ho scoperto attraverso racconti e documenti molti aspetti della sua personalità e della sua attività professionale. Pochi ricordano che Livatino seppe essere da pubblico ministero un grande innovatore nelle investigazioni e seppe dare da giudice le prime coraggiose applicazioni a leggi all’epoca di recente introduzione. Applicò con rigore le norme penali contro gli abusi edilizi, quando la sensibilità al tema era agli albori; avviò indagini bancarie e ricostruì flussi finanziari quando entrare nelle banche era considerato eresia. Individuò le prime forme di truffe alla CEE e non si fermò né dinanzi ad esponenti politici influenti né dinanzi ai consigli di prudenza che gli venivano anche dal suo ambiente. Lavorò alle prime confische di patrimoni ai mafiosi.
Sapeva rispettare gli uomini, anche quelli che accusava e condannava, al pari di come rispettava in modo intransigente la legge. Oggi si sente spesso ricordare che non rilasciava interviste sul suo lavoro. In realtà in vita non parlava nemmeno del suo profondo cammino di fede e di quanta energia da esso traesse per credere anche nell’importanza del suo ruolo di magistrato al servizio dello Stato e per la società.
Nella lettera si fa riferimento anche alla pietà popolare e si dice: Dobbiamo tornare a preoccuparci e a occuparci della pietà popolare, interpretandola non solo fatto sociale ormai anacronistico, bensì come fatto interno alla vita della comunità ecclesiale. Lei vive in una città e in una provincia ancora oggi segnate da una forte esperienza di pietà popolare. Come giudica queste parole alla luce della realtà nissena?
A partire dalla pietà popolare, si può coltivare una dimensione di nuovo umanesimo incompatibile con la mentalità mafiosa. Il primo passo è quello di affrancarne le pratiche dai condizionamenti mafiosi come si sta facendo in molte diocesi specie per feste e processioni, spesso piegate alle esigenze di esibizione di esponenti criminali.
Nel mio territorio, ricco di tradizioni e riti, per impulso del Vescovo e per convinta volontà anche dei laici, si sta recuperando il significato più profondo di essi, esaltandone i momenti meditativi, spirituali e solidali. In tal modo si può ridurre lo spazio per le strumentalizzazioni e si possono attivare riflessioni comunitarie sul senso profondo dei valori evangelici.
La giustizia e la Chiesa procedono su binari spesso paralleli. Quando possono incontrarsi e su quale terreno comune?
Torno a citare Cataldo Naro, che nel 1998 in una tavola rotonda con Giancarlo Caselli, all’epoca Procuratore di Palermo, rispondeva ad una sollecitazione del magistrato sulla necessità che le istituzioni e la Chiesa collaborassero nel contrasto con la mafia. Naro diceva in sostanza che non si poteva costruire un’antimafia fatta dall’incontro di autorità civili e di autorità ecclesiali. “Un simile accordo”, diceva, “sarebbe certamente diverso da quelli di potere del passato, ma comunque sarebbe sempre, in ultima analisi, un accordo fra poteri”. La strada invece deve essere quella di un coinvolgimento ampio di persone, non di poteri. Di popolo più che di gente che comanda (o che magari con lo strumento dell’antimafia vuole comandare e farsi capopopolo).