L’intervista di oggi, sulla Lettera dei Vescovi di Sicilia per i 25 anni dell’intervento di San Giovanni Paolo II nella Valle dei templi, è stata rilasciata da Vittorio Alberti, filosofo e storico, membro della Consulta scientifica del Cortile dei Gentili e direttore della rivista online “Sintesi dialettica”.
Nel 1993 lei aveva 15 anni. Forse non ha grandi ricordi di quel giorno, ma certamente quelle parole lo hanno accompagnato negli anni dell’adolescenza. Come hanno influenzato la sua formazione giovanile?
Quando sono stati uccisi Falcone, Borsellino e Scopelliti mi trovavo in Calabria. La mia famiglia è calabrese e fin da piccolo sento profondamente il problema delle mafie, queste piaghe che ancora oggi avvelenano le nostre società. La condanna e il monito di Giovanni Paolo II mi sembrarono formidabili. Ricordo che dissi “finalmente”. Mi aspettavo una reazione molto forte e sistematica della Chiesa a tutti i livelli. Questo è avvenuto? Singoli esempi ci sono sempre stati, ma appunto avrei voluto un’azione organizzata e complessiva.
La pubblicazione della Lettera ha trovato ampio consenso. Ma in molti hanno fatto notare che essa giunge in ritardo. Insomma i silenzi della Chiesa sarebbero superiori ai suoi proclami contro la mafia? È d’accordo?
L’importante è che la Chiesa istituzionale prosegua in modo sistematico, ritardi o non, e soprattutto che coloro che hanno capacità organizzativa, pensiero e coraggio si lascino lavorare e si valorizzino. La “Lettera” potrebbe essere impiegata come una sorta di costituzione, come un punto chiaro e utile di nuova partenza.
Dal suo punto di osservazione, che è esterno alla società siciliana, vede segni ed esperienze positive che più di recente segnino un’inversione di tendenza nella lotta alla mafia da parte della Chiesa Italiana?
Ne vedo tanti, ma ancora non basta. Penso a persone che seguo direttamente, all’arcivescovo Pennisi, al vescovo Oliva, al vescovo Cirulli e, naturalmente, a don Luigi Ciotti. Ma la questione è: rendere tutto sistematico a livello internazionale, a livello di Santa Sede, seguendo con la parola e l’azione ciò che dice papa Francesco. Questa è la mia opinione.
Nella lettera si dice che “Avvalendoci di un lessico peculiare … dobbiamo immaginare una metodologia formativa …. il più possibile pratica e contestuale, attinente cioè ai problemi dell’ambiente in cui abitano coloro cui essa è destinata”. Questa è in qualche modo la ricetta che lei propone nei suoi interventi, per esempio nel suo ultimo libro “Pane sporco”. È un problema di formazione delle coscienze o c’è da fare anche altro?
Istruire, educare, valorizzare, fare rete con un fine chiaro: la ri-creazione di una società. Oggi siamo una moltitudine senza tante speranze, e molto corrotta, nel senso fisico del logoramento prima ancora dell’illegalità. Dobbiamo compiere, insomma, un processo culturale e politico, nel senso filosofico del termine: come discorso alla città. La “Lettera”, in questo passaggio, è fulminante.
Nel corso di questi anni abbiamo avuto notizie di molti pentiti e di pochi convertiti di mafia. Queste due strade possono incontrarsi e come?
Possono incontrarsi, e il lavoro – spesso non riconosciuto – dei cappellani delle carceri è fondamentale, di enorme valore umano, culturale, spirituale, democratico, sociale. È bene che le persone imparino a conoscere i cappellani delle carceri. La loro è una lezione di libero pensiero, tra l’altro. Questo stato di cose, a me personalmente conduce a ragionare sulla laicità oggi.
Nel documento dei Vescovi si dice che bisogna: “mettere il popolo credente nelle condizioni di discernere tra fatti di cronaca e segni dei tempi” e come esempio si citano l’omicidio del Beato Pino Puglisi e del giudice Rosario Livatino. Perché è importante cogliere questa differenza?
Perché torni in pista la cultura vera, il pensiero e non la comunicazione fine a sé stessa, la comunicazione come fine e non come medium. Ci vuole filosofia, approfondimento e rinnovamento del linguaggio, che negli ultimi decenni si è imbarbarito, imbarbarendo anche il pensiero.
Il mondo della comunicazione ha compreso il senso profondo della Lettera dei Vescovi o il dibattito, come spesso è accaduto, è rimasto relegato tra gli addetti ai lavori?
Questa è una nota dolente che riguarda l’intera comunicazione ecclesiastica, dal Vaticano a scendere. Da un lato, abbiamo opere e patrimoni formidabili che non sappiamo valorizzare. Dall’altro, il sistema dei media è abbastanza becero e disinteressato verso cose serie come, per esempio, questa Lettera. La lettera ha avuto buoni riscontri, ma bisogna insistere e realizzare una cosa che mai si dice: acquisire potere nello spazio laico, per lavorare meglio e di più. O forse il potere è una cosa solo negativa?