Sabato scorso 15 settembre ero anch’io in Piazza Politeama in attesa che papa Francesco parlasse ai giovani. Come molti tra i presenti ero già stato al Foro Italico in mattinata per ascoltare la Messa e fare il pieno di caldo e sudore ed in più avevo avuto la fortuna di poter assistere al suo arrivo alla Missione di Speranza e Carità, aggiungendo alla fatica una ulteriore dose di caldo. Insomma, son partito per Piazza Politeama con poco entusiasmo convinto di andare a ascoltare l’ennesimo appello ai giovani siciliani, che magari avrebbero fatto la cortesia di ascoltare e nulla più.
Quando finalmente sono riuscito a raggiungere la Piazza mi sono subito deciso a cercare un angolo all’ombra benché lontano, piuttosto che tentare un improbabile avvicinamento al palco, visto la marea di persone avanti a me. Poi improvvisamente il servizio d’ordine ha spostato una transenna su una zona che era stata lasciata libera, e con grande facilità ho raggiunto un luogo distante non più di 30-40 metri dal palco. La circostanza mi è apparsa quasi miracolosa, ma soprattutto ha consentito di poter guardare e cercare di capire chi fossero quei giovani venuti da tutta la Sicilia per vedere un vecchio di 81 anni che - per giunta - era a Palermo per la prima volta.
Il pensiero è corso alle altre volte in cui ero stato nella stessa piazza per incontrare, allora giovane anch’io, altri due papi: Giovanni Paolo II nel 1982 e Benedetto XVI nel 2013. Il ricordo dell’atmosfera di quegli incontri mi ha sempre accompagnato negli anni successivi. Il calore della piazza non derivava dal sole cocente, come sabato scorso, ma da quello che quei giovani, così carichi di entusiasmo e di interesse, riuscivano ad esprimere. I cori resi famosi dal battimano: Gio-vanni-paolo, ta-ta-ta-, erano quasi ignoti a quanti mi stavano accanto. Molti probabilmente erano già stati presenti negli incontri precedenti e certamente si erano spelati le mani negli infiniti applausi di quei momenti, ma sabato le loro mani erano impegnate a spingere carrozzine, a porgere biberon, a mettere sulle spalle i figli più grandicelli per consentire di vedere meglio, ma certamente non avevano la voglia sfrenata di un tempo di battere a ritmo incessante il nome del Papa che stava per arrivare. E poi c’erano i giovani di oggi, quelli che non c’erano in quei giorni, che forse avrebbero visto il Papa per la prima volta in diretta, molto ben educati e ordinati; abituati a frequentare concerti rock piuttosto che assemblee come quella in corso, più introversi e meno movimentisti, come il Papa avrebbe detto poco dopo, che con garbo ma senza iniziativa seguivano le sollecitazione che provenivano dal palco, dove gli animatori di turno facevano di tutto per rendere l’arrivo del Papa più accogliente e caloroso.
Quando papa Francesco giunge in piazza politeama dopo le 17 dalla mia fortunata postazione posso notare che è visibilmente stanco. E chi non lo sarebbe! Ha lasciato Santa Marta ancor prima che tanti dei pellegrini siciliani abbiano lasciato le loro abitazioni. Accanto ho dei giovani ragusani che ci tengono a precisare: “Solo noi di Ragusa siamo partiti prima” Ma l’immancabile palermitano doc, che non manca mai in questi casi, commenta: “Ma voi non avete 81 anni come lui”. Excusatio non petita accusatio manifesta, verrebbe da commentare, ma non c’è tempo da perdere perché papa Francesco entra subito in argomento, si direbbe a scuola.
Come sempre gli hanno anticipato le domande che tre giovani hanno fatto. Lui non fa mistero che si è preparato e comincia a sfogliare i fogli di appunti che si è portato dietro. Ma al primo affondo si capisce subito che non è venuto per una visita di cortesia.
Il primo dei tre ha chiesto come si fa ad ascoltare il Signore e lui senza mezzi termini risponde: “Voi avete il numero del telefonino del Signore, per chiamarlo?…” E subito spiega: “Non lo si ascolta stando in poltrona, perché rimanere seduti crea interferenza con la parola di Dio”. Un brivido percorre i tantissimi presenti. I meno distratti hanno già compreso che non sono venuti per una conferenza sui giovani. Il Papa è venuto per motivarli e mobilitarli. È un chiaro invito a muoversi, a mettersi in cammino, a non sentirsi arrivati. Quel vecchio di 81 anni, che certamente conosce l’arte della comunicazione, parla come un educatore, non vuole fare prediche, è un pastore che ama le sue pecore. E proprio per non lasciare dubbi ripete per ben tre volte, a ritmi regolari “Capito? Capito? Capito?”. La piazza dà segni di interesse, diminuisce il brusio, aumenta il silenzio.
Poi è lui a fare la domanda successiva: “Dove cercare il Signore?” e la risposta non lascia margini di dubbio: “Non sul telefonino, non in televisione, e neppure davanti allo specchio”. È un invito pressante, ripete, a mettersi in cammino. Si vede che conosce bene le tante fragilità dei giovani odierni, sempre carichi di domande e incapaci di accogliere le risposte che la realtà offre loro. Li vuole mettere in guardia dalle finte e fittizie relazioni e li invita a credere in sé stessi, perché “Gesù crede in voi più di quanto voi crediate in voi stessi”. Il linguaggio comunicativo non è né quello di Twitter né quello di Facebook, è quello consolidato e certo, di chi sa parlare alla persona e al suo cuore. Con la sapienza di un vecchio di 81 anni sa cosa desidera il cuore dei presenti, giovani e meno giovani, e vuole aiutarli a scoprirne le risposte che la fede e la Chiesa sono in grado di dare.
E così dopo aver spiegato il contenuto dei verbi “camminare”, “cercare” e “sognare” ne aggiunge un altro: “servire”. E qui tornano alcuni dei temi già affrontati nella mattinata. Per prima cosa dice: “Voi siete un popolo” e spiega come il popolo siciliano non possa non essere accogliente. L’invito, ancora una volta, è a favorire gli incontri, perché: “La fede si fonda sull’incontro, un incontro con Dio. Dio non ci ha lasciati soli, è sceso Lui a incontrarci. Lui ci viene incontro, Lui ci precede, per incontrarci. …… E [nel]l’incontro fra noi, quanto conta la dignità degli altri? Dio vuole che noi ci salviamo insieme, non da soli, che siamo felici insieme, non egoisticamente da soli; che ci salviamo come popolo.”
Si comprende che l’appello non è ad un generico volersi bene o stare insieme. C’è Uno che ci ha preceduto perché per primo si è mosso. Solo questo può giustificare il nostro metterci in cammino. Non contento torna a spiegare cosa sia popolo: “Voi siete un popolo con un’identità grande e dovete essere aperti a tutti i popoli che, come in altri tempi, vengono da voi. Con quel lavoro dell’integrazione, dell’accoglienza, di rispettare la dignità degli altri, della solidarietà… Per noi non sono buoni propositi per gente educata, ma tratti distintivi di un cristiano. Un cristiano che non è solidale, non è cristiano. La solidarietà è un tratto del cristiano”.
Sembra abbia concluso, ma prende solo fiato. Gli porgono un bicchiere d’acqua e prosegue: “Quello che oggi manca, di cui c’è carestia, è l’amore: non l’amore sentimentale, che noi possiamo guardare nei teleromanzi, nelle telenovele, ma quello concreto, l’amore del Vangelo. E io vi dirò, a te e a tutti quelli che hanno fatto la domanda con te: come va il tuo amore? Com’è il termometro del tuo amore?”.
L’affondo sui temi sociali prosegue ancora e reitera il suo impegno a denunciare il malaffare e lo sfruttamento. Non parla di mafia e forse per questo colpisce meno in superfice, ma raggiunge la profondità del cuore. E spiega: “La vita non si fa a pennellate di vernice; la vita si fa nell’impegno, nella lotta, nella denuncia, nella discussione, nel giocare la propria vita per un ideale; nei sogni… Voi fate questo, e così va. Essere accoglienti significa essere sé stessi, essere al servizio degli altri, sporcarsi le mani e tutto quello che ho detto”. Per avere certezza di essere compreso e seguito reitera la domanda: “D’accordo? D’accordo davvero?”. Sono trascorse le 18. Alle sue spalle ci sono segni di inquietudine perché l’ora è tarda, ma lui non è ancora pago, vuole dire e parlare delle radici e chiede: “Ho parlato della vostra speranza, del futuro: voi siete la speranza. Ho parlato del presente: voi avete la speranza nelle vostre mani, oggi. Ma vi domando: in questo tempo di crisi, voi avete radici? Ognuno risponda nel suo cuore: ‘Quali sono le mie radici?’. O le hai perse? ‘Sono un giovane con radici, o sono già un giovane sradicato?’. Prima ho parlato di giovani in poltrona, di giovani in pensione, di giovani quieti che non si mettono in cammino. Adesso ti domando: Tu sei un giovane con radici, o sradicato?”
Sa bene che è un tema difficile, poco studiato anche a scuola e poco vissuto dalle giovani generazione. Nella frenesia di vivere il presente e talvolta di sognare il futuro, non c’è mai spazio per capire da dove veniamo. Ma lui lo sa bene e quindi incalza: “Abbiamo parlato di questa terra di tanta cultura: ma tu sei radicato nella cultura del tuo popolo? Tu sei radicato nei valori del tuo popolo, nei valori della tua famiglia? O sei un po’ per aria, un po’ senza radici – scusatemi la parola – un po’ “gassoso”, senza fondamenti, senza radici?” Lui si fa la domanda e si dà la risposta. “Ma, padre, dove posso trovare le radici? Nella vostra cultura: troverete tante radici! Nel dialogo con gli altri… Ma soprattutto – e questo voglio sottolinearlo – parlate con i vecchi. Parlate con i vecchi. Ascoltate i vecchi”. Ancora una volta ripropone la domanda: “Padre, loro dicono sempre le stesse cose!”. E lui risponde: “Ascoltateli. Litigate con i vecchi, perché se tu litighi con i vecchi, loro parleranno più profondamente e ti diranno cose. Loro devono darti le radici, radici che poi – nelle tue mani – produrranno speranza che fiorirà nel futuro. Diversamente, ma con radici. Senza radici, tutto è perduto: non si può andare e creare speranza senza radici. Un poeta ci diceva: ‘Quello che l’albero ha di fiorito, viene da quello che ha di sotterrato’, dalle radici. Cercate le radici”.
Accanto ho un gruppo di insegnati; qualcuno sotto voce, forse per non farsi sentire, bisbiglia che su quel discorso si potrebbe fare un corso di formazione, tanti sono gli spunti presenti; ma il cinico di turno ribadisce che tanto i ragazzi di oggi non possono capire. Peccato che questi giovani sono il frutto di ciò che siamo riuscita a costruire, e “meno male – aggiunge l’ultimo – che il Papa li ha mobilitati alla speranza. Forse loro ci aiuteranno ad abbandonare quella poltrona di cui lui parlava all’inizio, in cui siamo sprofondati e accomodati noi prima di loro”.
Anche il sole è sceso dietro il grattacelo di piazza Politeama. Finalmente in piazza è scomparso il sole e una certa brezza allevia la fatica di un giorno faticoso e indimenticabile per tutti. È l’ora dei saluti: “Grazie tante per l’ascolto, per la pazienza… Voi siete in piedi… Scusatemi, io vi ho parlato seduto, ma le caviglie mi facevano tanto male, a quest’ora! Grazie. E non dimenticate: radici, il presente nelle mani e lavorare per la speranza del futuro, per avere appartenenza e identità. Grazie!” C’è lo spazio solo per stringere le mani di tutti i giovani che hanno avuto la fortuna di essere sul palco e non mancano i selfie cui non si sottrae di certo. I tanti palermitani e siciliani iniziano a sfollare. Il popolo del 15 maggio del 2018 torna a casa, alle faccende usuali, domestiche e sociali. Da domani si riprende, ma tutto non potrà essere come prima.
P.S. A distanza di una settimana e di migliaia di kilometri ai giovani di Vilnius ha detto: “Il Signore ci salva rendendoci parte di un popolo. Ci inserisce in un popolo, e la nostra identità, alla fine, sarà l’appartenenza ad un popolo. Nessuno può dire: “io mi salvo da solo”, siamo tutti interconnessi, siamo tutti “in rete”. Dio ha voluto entrare in questa dinamica di relazioni e ci attrae a Sé in comunità, dando alla nostra vita un pieno senso d’identità e di appartenenza…... Non permettete che il mondo vi faccia credere che è meglio camminare da soli. Da soli non si arriva mai. Sì, potrai arrivare ad avere un successo nella vita, ma senza amore, senza compagni, senza appartenenza a un popolo, senza quell’esperienza tanto bella che è rischiare insieme. Non cedete alla tentazione di concentrarvi su voi stessi, guardandovi la pancia, alla tentazione di diventare egoisti o superficiali davanti al dolore, alle difficoltà o al successo passeggero…. andiamo controcorrente rispetto a questo individualismo che isola, che ci fa diventare egocentrici, che ci fa diventare vanitosi, preoccupati solamente dell’immagine e del proprio benessere. Preoccupati dell’immagine, di come apparire. È brutta la vita davanti allo specchio, è brutta. Invece è bella la vita con gli altri, in famiglia, con gli amici, con la lotta del mio popolo… Così la vita è bella!” La globalizzazione ci insegna che a Palermo come a Vilnius il problema è lo stesso. Ciò che io voglio fare della mia vita.