Pubblichiamo per esteso, ieri ne avevamo pubblicato una piccola parte, l’intervento della professoressa Giacoma Giglio, docente di lettere in una scuola media di Alcamo, che commenta la lettera che Mons. Michele Pennisi ha inviato a studenti e docenti per l’inizio dell’anno scolastico.
Avevamo bisogno di parole cosi! Parole che si rincorrono, si bisbigliano prima ed infine si urlano, in bocca al prete di campagna fino al Papa in visita a Palermo.
Sono una docente di lettere in una scuola media, sono della stessa anche la vice dirigente e spesso mi capita di girare per le classi, di intervenire per dirimere questioni tra alunni o tra alunni e docenti. I ragazzi non ci ascoltano più e sono sempre peggiori di quanti lo scorso anno sono stati licenziati dalle medie.
Vedo in questi giri per le classi dei cartelloni, che fanno bella mostra di sé, accanto al crocifisso impolverato. Cartelloni colorati, ben scritti, si vede che è stata una scelta oculata, è stato bravo il ragazzino che si è assunto l’onere di descrivere come ci si comporta in classe. Un comandamento laico accanto al massimo segno della sofferenza cristiana. La vittoria e la sconfitta? In ossimorica alternanza.
Sono i decaloghi quasi tutti uguali che iniziano con i numeri posizionando in ordine di importanza ciò che bisogna fare:
- alzare la mano prima di parlare;
- ascoltare l’insegnante;
- ascoltare i compagni……; ed ancora numeri che si inseguono per dare ordini imperiosi. Ma al n. 10 non ci arrivo, mi annoio. Non sono più interessata ad un buonismo giusto, educato, ma sterile che non parla al mio cuore.
Il ragazzino che ha scritto quel cartello è forse l’unico che ha letto il decalogo, lo si direbbe dalla confusione che regna in tutte le classi, che va crescendo dalla prima fino alla settima ora. Per forza!
Come faccio allora ad augurare un buon inizio di anno con un trito e ritrito discorso, neppure quello mi emoziona più, e dunque non lo ascolto più. È uguale a sé stesso, non mi emoziona neppure il Sindaco che entra a scuola e la cosa più interessante del suo discorso è quando dice che anche lui ha frequentato questa scuola, e li vedi i ragazzi smanettare con i loro cellulari e i docenti che fingono di frugare dentro le borse, in cerca di una distrazione momentanea: neppure loro ascoltano. Io sorrido pensando a quale paio di orecchini ho indossato stamane e rimproverandomi di non avere avuto il tempo di andare a farmi il ritocco di colore, sapendo che oggi sarebbe venuto il sindaco e ci saremmo fatti la foto, sorrido guardando l’obiettivo e fingendomi interessata, una foto da mandare sui giornali locali, dei quali nessuno legge più nulla, ma la foto la guarderanno.
E allora, il nostro mestiere è davvero così frustrante, il più mal pagato? In fondo siamo dei baby sitter con la laurea, che dobbiamo districarci tra leggi, norme e sempre più sofisticati registri dove non puoi più liberamente decidere la media di quel tizio che ha cercato di recuperare, ma avevi già trascritto un brutto voto, e adesso devi manomettere un voto affinché i “conti tornano”. Una calcolatrice decide per te, e tu sei solo con una orda di ragazzini ineducati, per usare un termine political corretto, ma vorresti dire: maleducati… .
Se fosse tutto così vero, avrebbero ragione i colleghi a lamentarsi tutti i giorni e tutto il giorno. Ma non è così, avevamo bisogno di queste parole di mons. Pennisi. Parole che dicono che nulla è perduto, nulla è banale, neppure quella baraonda di vita, quel flusso magmatico che ti prende quando metti piedi in una scuola, in qualunque ora del giorno. Se provi a stare attenta ti accorgi della ragazzina che piange dietro ad un rimmel troppo scuro, i suoi genitori si stanno separando. Di un fanciullo arrabbiato con il padre che lo ha lasciato ieri per andare a Torino in cerca di un lavoro e del suo prof. che non ha capito che era un mal di testa e non la voglia di non andare a scuola. Se solo provi a stare attenta senti le parole di felicità di quell’altra che si è appena fidanzata e quasi le sono scomparsi i brufoli, vedi le nottate trascorse sui loro smartphone, in cerca di felicità, o la nostalgia per il nonno che è volato in cielo, l’unico che li ascoltava, o la delusione per un amico che li ha appena traditi.
Possiamo mettere in riga questi ed infiniti altri sentimenti? Celati, velati o sguaiatamente mostrati? No, ma proviamo a farlo perché noi non siamo in grado di dare loro il più bello e sorridente dei nostri “benvenuti” e ci viene voglia di imporre un peso, noi non siamo tanto sicuri che quel sapere di cui noi siamo portatori sia il passaporto per il loro futuro e per esserne certi ci raccontiamo di figli lontani in cerca di un futuro migliore.
Con quel decalogo appeso sui muri cerchiamo di costruire uomini buoni, non felici. “La felicità mi spaventa”! dice una mia alunna, forse spaventa anche me, ma è l’unica cosa per cui vale la pena alzarsi al mattino. Ma se nessuno parla al mio cuore e mi promette che esiste ciò che io desidero, perché continuare ad ascoltare il sindaco, il prof che ha provato l’amara delusione e si ritrae dietro un decalogo e non mi fa intravedere la gioia piena, che solo chi è affamato di amore, assetato di giustizia, costruttore di pace, misericordioso verso chi ha sbagliato, capace di piangere con chi piange e di gioire con chi gioisce è capace di mostrare.
Un uomo che mi dice che non c'è morte che non possa essere vinta. Non c'è sconfitta, non c'è fallimento, non esiste ferita che non possa trasformarsi in vittoria, successo e guarigione, un uomo così voglio ascoltarlo e per questo dico che di queste parole avevamo bisogno. Non si dimentichi di dircele ogni anno Eccellenza.