Ogni anno in tante Diocesi di tutto il mondo viene celebrata una Messa in suffragio di mons. Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione e del riconoscimento della Fraternità di CL da parte della Chiesa. A Palermo la Messa sarà presieduta dall’Arcivescovo Corrado Lorefice giovedì 21 febbraio alle ore 18 in Cattedrale.
Abbiamo chiesto a mons. Carmelo Vicari che ha conosciuto molto da vicino don Giussani nel corso della sua permanenza in Lombardia un ricordo.
Lei ripete spesso che deve a don Giussani la nascita della sua vocazione sacerdotale. Come accadde questa circostanza nella sua vita?
Ovviamente non accadde tutto d’un colpo. Cominciò nell’ultimo anno della mia frequenza all’istituto tecnico di Gallarate, durante il quale conobbi l’esperienza di Comunione e Liberazione. Ne rimasi subito colpito e affascinato, per la novità e l’originalità della proposta cristiana. Ciò che mi colpì fu la possibilità di vivere l’esperienza cristiana dentro l’ambiente più normale della vita che per me in quel momento era la scuola. Solo in seguito conobbi don Giussani, di cui da subito mi avevano parlato.
Come ricorda in particolare il primo incontro?
Lo vidi per la prima volta nel corso di un ritiro studentesco svoltosi durante le vacanze pasquali nella basilica di Aquileia. Lo vidi ovviamente in lontananza, eravamo tantissimi, infatti. Ma la figura di quell’uomo, da come parlava a come si muoveva, da come stava con i ragazzi a come rispondeva alle loro domande, letteralmente, mi conquistò. Traspariva da lui una autorevolezza che innanzitutto incuriosiva, non intimoriva, ed era volta ad esaltare le nostre persone. Non bisogna dimenticare che eravamo tutti studenti di scuola superiore.
E come questo ha generato l’origine della vocazione sacerdotale?
Ho avuto la possibilità di incontrarlo all’Università Cattolica dove mi ero iscritto in filosofia e dove lui insegnava. I rapporti a quel punto sono divenuti quotidiani, e il suo modo di affrontare la vita, i contenuti che comunicava, il suo modo di valorizzare tutte le espressioni umane, la poesia, l’arte, la musica, ecc., e il suo modo di parlare delle cose della vita, e dell’uomo in generale, me lo ha fatto riconoscere corrispondente ai miei desideri, fino al punto di desiderare di diventare come lui. E poiché era un sacerdote ho desiderato diventarlo anch’io, cosa che fino a qualche anno prima era lontanissimo dai miei progetti.
Da lì dunque la nascita della vocazione? Che cosa ha significato in quel momento storico della sua vita?
Vocazione ha significato per me aver intravisto davanti ai miei occhi un modo di essere uomo in qualche modo corrispondente a quello che avevo sempre desiderato. Questo processo è divenuto congeniale e mi sono identificato con la strada che lui aveva già percorso. Paterno, attentissimo a tutti i fattori della mia vita, mi fece attendere un anno per cominciare a verificare in concreto la mia vocazione. Dopo un anno di preghiere e confronti sono entrato nel seminario di Bergamo, nella Comunità Missionaria del Paradiso. Era, questa, una realtà diocesana con una spiccata finalità missionaria e caritativa, che mi ha segnato e accompagnato fino al presente ed ha avuto un peso notevole anche nella decisione di venire a Palermo.
Perché?
Perché in quegli anni emerse la possibilità di rendere un servizio anche alle comunità di Comunione e Liberazione che già esistevano nella Sicilia occidentale. Valutata l’opportunità, si trovò subito una accoglienza nella persona del Cardinale Pappalardo e così mi trasferii nel 1980 per l’ultimo anno nel seminario diocesano di Palermo. Nel dicembre del 1981 qui fui ordinato sacerdote dal Cardinale ed era presente anche don Giussani, che mi impose anche lui le mani e fu lui a vestirmi degli abiti sacerdotali. Trattengo, commosso, bellissimi ricordi di quei giorni.
Negli anni della sua permanenza in Lombardia ha avuto modo di conoscere alcuni tratti distintivi della personalità e del genio educativo di don Giussani. Quali ricorda in particolare?
Ho già detto del suo fascino umano, ma va aggiunto che era un uomo ricco di cultura e mi impressionava per l’ampiezza delle conoscenze che possedeva e che comunicava. Introduceva ad un universo di conoscenza e ad un modo di arrivare alla conoscenza né dottrinario né nozionistico, perché ci guidava dentro la vita in modo tale che noi potessimo arrivare alla conoscenza attraverso le varie esperienze umane, e costruirci una coscienza solida, adulta, ragionevole, convinta, e della vita e del suo significato e quindi delle responsabilità che poi la vita ci avrebbe fatto assumere. Era un rapporto educativo che ci rendeva liberi e responsabili. Mai ho avuto la percezione di essere come mutilato, ridotto o impedito nella espressività della mia persona, ma anzi incoraggiato.
Che significa incoraggiato?
Don Giussani era uno che ci incoraggiava a giocare tutta la nostra umanità, tutte le risorse e i talenti che potevamo avere, era un uomo che stimava noi più di quanto noi stimavamo noi stessi. Vedeva in noi cose che noi non vedevamo. Ed apprezzava cose che noi non riuscivamo ad apprezzare. Era qualcosa che lasciava stupiti innanzitutto noi stessi. Aveva uno sguardo sulle circostanze della nostra vita che non sempre riuscivamo a cogliere. Noi cercavamo di sminuirle ma quando si parlava con lui le cose si trasfiguravano e capivamo il valore che la nostra vita aveva. Ecco perché era un grande educatore. Con lui si percepiva in modo nuovo il cristianesimo. Non viveva di cose passate, non ripeteva cose già dette, non comunicava formule, riti, norme, ma di fronte a lui eravamo sempre “all’erta” come sentinelle con le antenne sempre pronte a captare cose nuove e positive e la prima cosa nuova era il suo modo di vivere il cristianesimo. Ecco accanto a lui non si stava mai tranquilli.
Che ricordo ha del suo modo di vivere e concepire la carità?
Frequentando da vicino don Giussani ho scoperto il volto vero della carità cristiana. Non come una generosità senza limiti o come una serie di gesti di bontà da compiere per mettere a tacere la coscienza, ma la carità come modalità di essere e vivere i rapporti con tutti, soprattutto con le persone che manifestavano un livello di bisogno più radicale. Avevo già fatto questa esperienza con i miei amici e compagni di scuola di Gallarate, ma era rimasta una esperienza epidermica, finché un giorno mi chiese …
Che cosa?
Se ero disponibile a condividere con lui ed altri amici un gesto di carità. Ma non aggiunse altro. Mi trovai con lui in una casa “per bene” in una famiglia milanese che aveva un figlio che a causa di una malattia era quasi del tutto immobilizzato a letto. Il nostro compito era semplicemente quello di girare le pagine del libro su cui studiava o rimettere in posizione eretta il capo quando declinava: il tutto per consentirgli di finire gli studi universitari. Questo impatto così duro mi ha posto la domanda sul valore e il senso vero della vita. Ho scoperto in tal modo che l’uomo è sempre una sete di vita e di compimento di conoscenza e di relazioni, ed anche un bisogno di essere utile. Cioè che ognuno di noi desidera essere utile e lasciare un segno. Quel ragazzo desiderava semplicemente questo e desiderava una condivisione consapevole e libera.
E come ha fatto a capirlo?
Un giorno mi chiese in modo diretto e quasi brutale che cosa io pensassi realmente della sua condizione. E da lì è iniziato un rapporto realmente profondo di messa in gioco delle nostre persone e delle nostre vite in cui ho potuto esprimere tutte le mie perplessità e le mie difficoltà sulla sua condizione di vita e dove lui al contrario ha tirato fuori tutta la sua libertà e la sua gratitudine per quanti lo aiutavano. In una parola: la carità come forma del dono di sé, della propria vita e dell’altro. Col desiderio di arrivare insieme al compimento della propria esistenza.
In quegli anni era forte anche il dibattito e il contrasto dentro la Chiesa. Come viveva l’appartenenza ecclesiale e come gliel’ha trasmessa?
Don Giussani ha vissuto e ci ha fatto vivere pienamente il dibattito molto vivace e talvolta drammatico della Chiesa del post Concilio. Don Giussani la Chiesa l’ha amata e apprezzata per quella che era, senza nasconderne i limiti, ma valorizzando al massimo le potenzialità che portava e che le derivavano dalla Grazia. Così riconosco di aver avuto la possibilità di vivere intensamente quegli anni caratterizzati, da una parte, dalla tensione della Chiesa a presentarsi in modo vero e nuovo al mondo che, dall’altra, era attraversato e segnato dalla contestazione giovanile e dalla esplosione della questione sociale operaia e femminile. Ci aiutava a stare dentro la storia cercando di cogliere le ragioni profonde, anche religiose, di ogni cosa, coinvolgendo totalmente le nostre persone. Sì ci ha fatto amare e apprezzare la Chiesa in modo realistico e ragionevole, aperti sempre alla grande Speranza. Questa esperienza mi è stata utilissima negli anni della mia permanenza a Palermo.
Perché?
Perché per esempio mi è stato chiesto di lavorare in parrocchia e di fare il parroco, cosa che non avevo messo nel conto. L’ho fatto e continuo a farlo con grande impegno e convinzione in forza di quell’amore alla Chiesa e alla sua missione che lui mi ha trasmesso. L’ho fatto fuori Palermo, a Termini Imerese, l’ho fatto in parrocchie di periferia, a Boccadifalco, del centro storico, a piazza Ingastone e adesso a Sant’Ernesto. Contesti apparentemente diversi forse dal punto di vista sociologico ma tutti uguali rispetto a quel compito missionario che avevo iniziato a gustare con lui e continuato in seminario a Bergamo.
Come ha vissuto negli anni successivi il rapporto con quest’uomo?
Certo sono cambiate le forme e gli spazi di tempo, ma mai l’intensità e la profondità. Mi ha sempre seguito da lontano e sempre mi ha accolto quando potevo andarlo a trovare a Milano. Ma il rapporto si è approfondito attraverso l’adesione al Movimento. Ci incontravamo periodicamente durante gli esercizi spirituali, gli incontri tra i responsabili e le sue periodiche venute in Sicilia. Continuavo a imparare da lui guardandolo all’opera sempre, anche quando la salute e la possibilità di comunicare hanno cominciato a venirgli meno; in modo particolare cercando di immedesimarmi nel suo modo di affrontare la malattia e la sofferenza.
Con quali parole ricorderebbe l’importanza che ha avuto per la sua vita?
Ho potuto partecipare ai suoi funerali e in quella occasione ringraziare Dio, insieme a tanti altri, per avercelo donato e pregarLo perché lo accogliesse al suo cospetto. Sono con tutti gli altri grato, anche dopo tanti anni, per questo dono di grazia che la sua persona è stata ed è per me e per tutta la Chiesa.