(11 giugno 2015) – La sera del 4 giugno l’Orchestra e il Coro del Teatro Massimo hanno eseguito la maestosa Messa da Requiem di Giuseppe Verdi. Sotto la bacchetta di Roberto Abbado, i solisti, richiesti nei più importanti teatri del mondo, sono stati Maria Agresta (soprano), Ekaterina Semenchuk (mezzosoprano), Giorgio Berrugi (Tenore), Riccardo Zanellato (basso). La sacralità della musica, la perfezione espressiva, la suggestione diffusa, hanno caratterizzato lo spettacolo di una bellezza rara e raffinata. Tutto esaurito, pubblico entusiasta. Ognuno ha dato il suo contributo fondamentale nella realizzazione della composizione verdiana: dagli impercettibili “piano” di fila o di coro che creavano un unico suono nei momenti meditativi e di preghiera, alla tragicità dell’incombenza della morte rappresentata dai toni forti del “dies irae”, ridondante. Forse è il termine “tragico” il più rappresentativo di questa musica: la tragicità della realtà umana, in tutte le sue sfaccettature.
Il senso drammatico dei testi utilizzati per la Messa da Requiem del rito cattolico, hanno sempre ispirato nella storia non pochi compositori, nelle sue parti: Introito (Requiem) e Kyrie, Dies irae, Offertorium, Sanctus, Agnus Dei, Lux aeterna, Libera me.
Verdi dedica questa Messa da Requiem ad un uomo che stima profondamente: Alessandro Manzoni. Egli crede quasi impossibile che la Provvidenza (“se una Provvidenza esiste”, dalle sue stesse parole) possa permettere lo spegnersi di una mente tanto eccellente, una mente talmente vicina all’Alto da ritenersi al di sopra di ciò che sta qui sulla terra. E che se mai avesse dovuto scrivere una Messa, (non essendo un credente) l’avrebbe scritta per lui. Aveva scritto composizioni legate all’autore già in gioventù, mettendo la musica ad alcuni Cori delle tragedie manzoniane, o al Cinque Maggio; nonché numerosi riferimenti testuali nei suoi melodrammi. Un personaggio, dunque, di un certo peso per tutta la sua carriera compositiva, senz’altro come fonte d’ispirazione. Per cui, nella vita del compositore già disseminata da difficoltà e pesanti lutti familiari, anche la morte di questo gran nome e “gloria italiana” (come lo definisce lui stesso) è risultato un evento carico di dolore. Il Requiem, terminato nel 1874, anno dopo la morte, scritto in un periodo di allontanamento dalla scrittura per il teatro d’opera, riprende il tema del “Libera me domine” dalla messa che aveva iniziato a scrivere per la morte di Gioacchino Rossini (altro personaggio enormemente stimato da lui) alcuni anni prima: la morte di Manzoni gli dà ispirazione per concludere l’opera che aveva già iniziato a pensare. Il “Dies irae”, senz’altro il passo più celebre dell’intera composizione, esprime la potenza di Dio al di sopra di ogni cosa, il senso di terrore nei confronti di un Dio giudice, la piccolezza dell’uomo nel suo peccato di fronte a tanta grandezza. Da qui, la richiesta di perdono, la supplica di salvezza, il compianto da colpevole che implora misericordia divina, unica a poterci salvare dalla morte eterna (“Libera Me”, per soprano e coro).
Tutti gli artisti del teatro hanno esplicato, con professionalità, i sentimenti contrastanti contenuti nella composizione: le sfumature, l’“irae”, la delicata ricerca di senso.
Foto di Emiliana Lopes