(15 settembre 2013) – Riproponiamo quest'articolo nel giorno in cui ricorre il ventesimo anniversario dell'assassinio del Beato Giuseppe Puglisi.
(11 febbraio 2013) – Basterebbe sentire che dal 6 febbraio al Teatro Bellini di Palermo è in scena un’opera di Mario Luzi, presentata in sala da uno scritto a firma di Giovanni Raboni, per avere delle ragioni sufficienti per comprare un biglietto de “Il fiore del dolore”. Se poi si venisse a sapere che la pièce del poeta toscano tratta del martirio di Padre Pino Puglisi (che fra poco meno di tre mesi verrà proclamato beato a Palermo) ogni residua obiezione decadrebbe.
Mettere in scena un’opera su Puglisi a distanza di 20 anni dalla morte è tutt’altro che una ripetizione. Tanto più se l’opera nasce e si dispiega come un’interrogazione sull’accaduto. Com’è potuto accadere “che un prete/ per di più venerato/ sia messo a tacere a colpi di lupara”? Le parole sono di Annarosa, uno dei personaggi-chiave entro cui si conduce la narrazione, anzi l’indagine.
Sì perché quella che si conduce al Bellini è l’indagine di un giornalista, o meglio di un opinionista, alla ricerca della Verità sul martirio di Padre Puglisi (paragonato in una battuta aspra della pièce ad “un fendente sulla dura pelle abituata ai colpi”, dove la pelle in questione è quella dei siciliani). L’opinionista, non palermitano, decide di dar spazio alle parole della gente che incontra (“mi trasformerò in un tarlo che rode il silenzio/ e l’omertà e fa parlare gli altri e li ascolta”). “Nostro mestiere è l’interpretazione” ripete più volte sulla scena l’attore Pierluigi Corallo, ma l’interpretazione deve cedere al mistero che si impone (“la maestà dell’accaduto e la pochezza del commento/ rimangono”).
In scena entrano, feriti dall’enigma del male perpetrato su Don Pino, diversi personaggi: gli avvocati che si arrovellano e si confrontano, con congetture capaci di intercettare parzialmente le modalità dell’assassinio e i possibili mandanti; Annarosa, una donna che si dibatte nel buio fitto scaturito dalla notte fatale per Puglisi; i parrocchiani di Padre Puglisi che si riuniscono in sua memoria sapendo e non sapendo il perché dell’accaduto; l’arcivescovo (e il vicario che ne presenta i pensieri) che “sposterà di un poco il bersaglio,/ il centro attuale dell’intelligenza” dell’evento, proponendo di guardare la “prodigiosa simmetria” del panorama umano, per la quale è dato di vedere “prorompere dal più deietto stato dell’umanità perseguitata” il “genio” e l’“energia della testimonianza”.
Ma forse l’unico che davvero assapora per intero il senso del morire di Don Pino è il sicario, che viene presentato sulla scena dentro la sua prigione: dentro il suo dramma. Egli, infatti, nella sua prima apparizione non riesce a riconoscersi che nel suo “errore”, nella sua “mostruosità”, invocando la morte come unica possibile via d’uscita. Ma è proprio dalla sua bocca che nell’ultima scena verranno fuori le parole che compongono il titolo e penetrano il mistero.
Fare l’attore di un’opera in versi è “questione di millimetri”: in ogni passo, in ogni momento il rischio è quello di inchiodare la parola in un suo parziale senso, la riuscita di un’interpretazione sta invece nel lasciare che il respiro del verso prenda corpo per intero sulla scena. In questo senso è difficile trovare una rappresentazione all’altezza del testo originale: nella messa in scena del Bellini chi si è avvicinato maggiormente alla profondità del testo è stato certamente Alfonso Veneroso (non a caso uno dei pochi attori già presenti nella rappresentazione che il teatro Biondo offrì alla città dieci anni fa, alla presenza dell’autore). Il testo infatti è impegnativo, e in alcune parti della rappresentazione al Bellini l’enigma del Male sembra, come non succede nel testo originale, sovrastare il fiore del dolore.
Ma la grandezza di quest’opera sta nel far sprofondare lo spettatore nel giro di un verso (“è solo una invenzione dell’animo che ti offrirà la chiave”). In questo senso sono d’aiuto le musiche di Arvo Pärt (altro nome che la dice lunga sulla qualità dell’opera), a sottolineare, incupire e illuminare le parole e la scena.
È stupefacente pensare come Luzi sia stato capace di afferrare, o meglio di avvicinare, la profondità del delitto e l’ “irresistibile passione” di Don Pino, a distanza di kilometri e di anni dalla sua morte. È stupefacente, anzi, ci rende grati.
Da segnalare infine gli scatti in bianco e nero di Pietro Motisi nell’anticamera del teatro, sotto i quali campeggiano le parole-monito di Don Puglisi: “non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti”.
Si replica fino al prossimo 28 febbraio. Info: 091/7434301.
SPETTACOLI - "Il fiore del dolore" al Bellini di Palermo. Le foto documentano alcuni momenti dell'opera in versi "Il fiore del dolore" di Mario Luzi messa in scena al Teatro Bellini di Palermo dal 6 al 28 febbraio 2013.– Sicily Present (foto di Alberto Alaimo)