Conversazione sulla scuola/7


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(17 gennaio 2015) - Diario di un prof nei giorni del terrore.

Venerdì 9 gennaio. «Prof, Dio che ha creato tutto dal nulla non ha bisogno di essere difeso da gente che va in giro ad uccidere persone innocenti!».

Le parole di Jihad, il mio ex alunno tunisino, leniscono come un balsamo la ferita che si rinnova ed acuisce di rabbia impotente ad ogni passaggio televisivo delle immagini dei due terroristi che, inneggiando Dio a parole e bestemmiandolo nei fatti, freddano l’uomo inerme accasciato sul marciapiedi di fronte alla sede del giornale satirico «Charlie Hebdo». Il suo messaggio postato su Facebook in risposta alla mia richiesta di una reazione ai fatti di Parigi, ha la concretezza di un rapporto durato cinque anni e la densità di una quotidianità in cui tutto, dai contenuti del libro di testo, ai fatti che capitavano a scuola e fuori da quelle mura, trovava un luogo di paragone a partire dalla propria identità.

Non è la categoria astratta dell’ “Islam moderato” a poterci rassicurare, né lo sforzo dei media di separare i terroristi dalla loro matrice religiosa, bensì quella fiducia che nasce dalla condivisione della vita.

Le parole del mio alunno di un tempo vanno alla radice della questione: Dio. E la ragione.

Sabato 10 gennaio. Il racconto di una mia giovane amica conferma che il punto è quello. Roberta ha quindici anni. Insieme a lei, ad un gruppetto di suoi coetanei e al suo professore di scienze, a scadenza bisettimanale, condividiamo un gesto di caritativa rivolto alla “vecchiette” di una casa di riposo. È rimasta colpita dal commento di una sua compagna musulmana. «Lo dice il Corano – le ha spiegato –. È giusto difendere l’Islam e il Profeta da chi li offende». «Tu difenderesti Gesù se i tuoi compagni lo bestemmiassero?». «Sì» è la pacata risposta. «E uccideresti per questo?». «Certamente no». «Ecco, – le faccio – lì sta il problema, nell’interpretare correttamente cosa significhi “difendere”. Le cose non vanno fatte semplicemente “perché Dio vuole così”, ma perché sono profondamente umane. Ed è la corrispondenza all’umano che ci rende certi che è Dio a volerle. Dobbiamo fare questa verifica. Aiuta anche tu, in questo, la tua compagna».

Quanto accaduto in Francia ci costringe, tra le tante cose, a ripensare i nostri modelli di integrazione. A partire da quelli proposti a scuola dalla cultura dominante. Mi chiedo, infatti, se sia ragionevole rispondere alla ragazza musulmana di casa nostra con l’atteggiamento derisorio di certo nichilismo gaio che risolve la questione concludendo che «tanto dio non esiste». O, in modo più sofisticato, propugnando l’opportunità di cancellare tutte le fedi.

Una tale posizione, innanzi tutto, non distingue tra quanti sono perseguitati e i loro aguzzini. In secondo luogo, essa manca di notare che gli apostoli del terrore, alla stregua di Coulibaly e dei fratelli Kouachi, sono stati educati nelle laicissime scuole d’Europa. Infine, bisogna chiarire che anche il fondamentalismo di alcuni atei alla Umberto Eco, un “dio”, una ragione che renda la vita degna di essere vissuta, uno scopo ultimo da perseguire nell’azione ce l’ha, eccome. Per l’Occidente post-moderno, questo “dio” ha spesso il volto accattivante del consumismo che promette di appagare il desiderio di infinito degli uomini con una infinita varietà di cose da usare e buttare; ha la potenza della finanza internazionale che solleva e fa cadere le nazioni, e un paradiso in terra fatto del piacere di un sesso senza scopo e senza responsabilità.

L’esito pratico di questa “religione” è una libertà che ha sovente la forma di una capricciosa autonomia in cui l’individuo – come ha scritto Giuseppe Di Fazio – è ridotto ad «un atomo senza personalità» e la casa che abitava ad una terra di nessuno, una landa deserta di simboli, senza identità e senza storia alla mercé del più forte. Un uomo che non crede più a nulla può credere a tutto. Specie in ciò che rifiuta quel vuoto.

«Dio, Dio, sempre Dio». L’imporsi inesorabile di questa parola che suona ripugnante alle orecchie dell’uomo moderno, come risultava fastidiosa a quelle dell'Innominato, ancora, all’alba del terzo millennio, ha un ché di irritante e di sottilmente umoristico.

Domenica 11 gennaio. Un’ex alunna è passata da casa per salutarmi. Da pochi mesi ha concluso brillantemente il suo percorso universitario e, a 26 anni, ha deciso di iniziare la verifica nella clausura del monastero di Vitorchiano. Le ragioni sono, per lei, semplici e profonde. Esse riguardano l’evidenza, sempre più palese nella sua vita, che «Dio basta» e che quella potrebbe essere la forma più concreta in cui la felicità è possibile dentro la sua storia. E poi la certezza che questo gesto corrisponda a «ciò che serve al mondo intero». La felicità e la pace che tutti rincorrono «c’è»; si trova nel rapporto personale con un Dio che si incarna dentro la nostra storia e desidera conquistare un’unica cosa: il nostro cuore, per donarci il Suo.

Mi piacerebbe che i miei giovani amici si incontrassero per parlare di tutto, senza rinunciare a ciò che hanno di più caro.

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