A Lampedusa con la Guardia Costiera: non possiamo privare i migranti della speranza ad una vita migliore, la stessa a cui io non intendo rinunciare

 

La complessa e drammatica vicenda della immigrazione in Europa e in Italia, sembra essersi ulteriormente ingarbugliata, da quando al tema dei grandi numeri si è sostituito quello dei drammi dei pochi che ancora tentano di raggiungere le nostre coste. Il cambiamento di rotta e di prospettiva impresso dal nuovo Governo al confronto/scontro con l’Unione Europea sembra non sortire effetto. Ancora una volta la dinamica dei drammi umani che accompagna l’uomo da quando ha fatto la comparsa sul pianeta, si ripropone con il medesimo copione, per cui la situazione del fratello bisognoso mi riguarda solo se me lo trovo, non sull’uscio di casa, ma in camera da letto. E siccome nella “casa comune europea”, l’Italia è per noi come la camera da letto, mentre per quasi tutte le altre nazioni rappresenta l’ingresso, i balconi o al massimo i bagni, ecco che il problema continua a non essere affrontarlo, nella segreta speranza che l’Italia svolga un analogo servizio a quello che è stato profumatamente pagato dalla UE alla Turchia. Alla guerra tradizionale si è sostituita quelle delle piccole scaramucce, una sorta di guerra di posizione volta a mostrare i muscoli più che i cannoni. Risultato: queste piccole guerre rappresentate da quanti sono riusciti ad imbarcarsi su barche, barchine e barchette che riescono a fuggire dalle prigioni libiche nel tentativo di giungere in Italia, appassiona l’opinione pubblica più che la sorte di quanti vi sono coinvolti.

Per tentare di capire cosa e come sia cambiato di recente il fronte dei soccorsi in mare abbiamo raggiunto una giovane infermiera che ha svolto un mese di lavoro su una motovedetta della Guardia Costiera di stanza a Lampedusa.

Angela La Porta si è laureata a Palermo in infermieristica a marzo e in attesa di trovare lavoro e anche per voler soddisfare un grande desiderio, quello di scendere in prima linea sul fronte dell’accoglienza agli immigrati, ha fatto richiesta al CISOM (Corpo Italiano di soccorso dell’Ordine di Malta) in Italia: dopo l’invio del curriculum e un colloquio fatto a Roma, ha trascorso l’intero mese di luglio a Lampedusa.

Cosa hai trovato a Lampedusa?

Innanzitutto la “macchina” del CISOM ben avviata ed efficiente, costituita da tante persone provenienti da tutta Italia di comprovata esperienza (io ero la più giovane e la meno esperta) con il compito di stare sulle motovedette e di svolgere un lavoro di prima accoglienza in mare.

E giunti a terra?

Provvedevamo a consegnare al personale infermieristico e medico quanti avevamo raccolto in mare.

E voi del CISOM come eravate organizzati?

Eravamo distribuiti in quattro squadre: una di turno, una di eventuale rincalzo ed una di disponibilità e una di riposo, ma pur sempre disponibile per eventuali necessità. Quindi ogni giorno trascorrevamo almeno sei/otto ore in mare.

E a quanti interventi hai preso parte?

Quasi a tre, ora spiego perché quasi. Nel primo siamo andati incontro ad alcuni barchini sui quali si trovavano ventinove tunisini. Si è rivelato subito un intervento semplice. Provenendo dalla Tunisia, erano da poco in mare e, quindi, anche in buona salute. Abbiamo solo provveduto a farli salire sulla motovedetta e portati a Lampedusa. Ci hanno subito spiegato che spesso queste persone sono evase dalle carceri e quindi bisognava fare molto attenzione. Erano tutte molto giovani e le loro facce mi hanno parecchio incuriosito. Ho smesso ben presto di rincorrere questi retro pensieri e cercare piuttosto di intuire il motivo che li spingeva a venire in Italia, sobbarcandosi comunque una dose notevole di rischio, visto le mutate condizioni politiche del nostro Paese, delle quali erano certamente a conoscenza. Avrei voluto fare di più, interessarmi del loro futuro, aiutarle a rimanere, ma ho imparato che il mio compito era quello di accoglierle; in fondo il mio era il primo volto dell’Italia che incontravano e dal mio sorriso o dal mio corrucciamento avrebbero capito come sarebbero stati accolti. Piuttosto che farmi domande sulla loro storia passata era meglio vivere quelle poche ore di presente da trascorrere insieme, offrendo del nostro Paese il volto migliore.

E poi?

Il secondo intervento è stato certamente il più duro e il più importante. Siamo stati chiamati in piena notte ed abbiamo trovato in alto mare non una barchetta, ma un peschereccio con 450 persone. La scena che mi si è rappresentata è stata ben più dura di quelle viste in televisione o lette sui libri, sembrava quasi surreale: c’era chi urlava, chi si sbracciava per essere recuperato e salvato, sapevo che molti non sapevano nuotare e quegli ultimi minuti prima di salire a bordo potevano essere decisivi per la loro vita.

E il personale della motovedetta?

Ha mostrato grande competenza e professionalità; si vedeva che sapeva fare il proprio lavoro non attenzione. Usava il cervello e il cuore contemporaneamente e a mille, senza farsi prendere dal panico e dalla fretta. Alla fine li abbiamo portati tutti a terra.

Quanti sono stati utili gli studi e le competenze acquisite negli anni precedenti?

Ben poco, era un mondo molto lontano e distante dalle corsie di ospedale che avevo frequentato e poi di fronte ai volti impauriti e terrorizzati di tanti che non conoscevo mi sono sentita piccola e quasi inutile. Ho ripensato alla precedente esperienza e mi sono ricordata che per fare molto bisogna fare il poco di cui si è responsabili e così ho continuato a lavorare, anche sconfiggendo la fatica che cominciava a farsi sentire. Finché…

Finché?

Finché non mi è stata data tra le braccia una bambina di pochi mesi in attesa che si facesse salire a bordo la mamma. Mi sono emozionata e preoccupata. Ho vissuto per alcuni attimi una esperienza irreale: mi sembrava di avere tra le braccia Gesù Bambino, ma non quello della statuetta che si mette nel presepe la notte di Natale, ma quello vero, in carne e ossa. In quel momento quella bambina rappresentava per me tutti i bambini del mondo, come solo Gesù Bambino è in grado di essere. In seguito ci ho pensato a lungo, ma in quel momento ho avuto solo un desiderio: salvarlo e riportarlo nelle braccia della madre. Il resto, non contava.

E poi?

E poi ho continuato ed ho incontrato un bambino che consolava la madre dolorante e ferita. Voleva ringraziarci perché l’avevamo salvato, ma aveva il pensiero alla mamma che non stava bene. In quei frangenti, di fronte alla paura che rischia di degenerare in disperazione, bisogna solo mostrare con i gesti la propria capacità di accoglienza e magare di voler bene, spesso senza poter parlare, perché non si sa bene neanche che lingua parlino e non c’è tempo per fare domante.

Prima hai parlato di un altro “quasi” intervento, perché?

Ho detto “quasi” perché quanto accaduto evidenzia anche il clima e il contesto cambiato in questi ultimi mesi. Un’altra volta ci hanno chiamati mentre eravamo in paese a consumare un gelato. Siamo scappati di corsa, ci siamo cambiati in macchina e siamo salpati subito. Ma dopo un po’ non c’era traccia di questa imbarcazione. Piuttosto che continuare le ricerche è giunto l’ordine di tornare indietro. Il personale della motovedetta era visibilmente contrariato, perché avrebbe voluto proseguire, come tante altre volte era successo nei mesi precedenti. Ma non dimentichiamo che sono militari e devono obbedire agli ordini che ricevono. Forse si erano spinti troppo verso la Libia e questo adesso non è più consentito. Ma dopo qualche ora ci hanno richiamati per proseguire le ricerche, ma questa volta l’imbarcazione non è stata trovata. Siamo tornati in porto tutti molto tristi.

Perché?

Perché era chiaro che qualcosa di brutto era successo: o il naufragio, di cui non si saprà mai nulla, o il ritorno in Libia, di cui non si saprà mai nulla. Questa esperienza è stata certo la più dura. Eravamo lì per un compito e non abbiamo potuto espletarlo, non abbiamo saputo neanche per causa di chi o di che cosa.

E quindi che giudizio ne hai tratto?

Che di fronte al bisogno, qualunque esso sia, anche quello di chi stende la mano all’uscita della Messa e sembra che sia vestito meglio di te, mettersi a fare domande sul perché è il modo migliore per scrollarsi di dosso le responsabilità. Ciascuno ha le proprie ed è giusto che le porti fino in fondo, ma io ero andata per dare una mano a far salire gente da un barchino che poteva colare a picco su una motovedetta in grado di portarli sulla terra ferma. Negli occhi di quella gente si leggeva la disperazione: l’unica cosa che potevo fare era accoglierli per fa loro percepire che non erano soli. Non riesco a spiegare altro, dare grandi giudizi o aggiungere parole.

Cosa rimane allora di quella esperienza?

L’impressione di quei volti e dell’umanità palpabile che non è diversa da quella che incontro oggi facendo il mio lavoro. Mi chiedo, dopo essere tornata a casa, cosa sono riuscita a trasmettere a persone che certamente non incontrerò mai più. Il contenuto di tutto questo è il diritto alla speranza che non possiamo negare a nessuno, nemmeno di fronte a leggi ingiuste o ad ostacoli insormontabili. Penso spesso a quelli che non abbiamo forse potuto salvare. Di cosa li abbiamo privati? Della speranza ad una vita migliore, la stessa a cui io non intendo rinunciare.

E adesso?

Adesso sono tornata a Palermo ed ho avuta la fortuna di trovare un lavoro part time in una struttura privata. Per cominciare va bene, anche perché molti miei colleghi laureati nello stesso anno sono già partiti o in procinto di partire per il nord Italia o per l’Inghilterra. A me questa speranza di miglioramento non è stata tolta, ma a quanti tentano di attraversare il mare non è stata concessa? Non lo saprò mai! Non lo sapremo mai!

Cosa c’è allora nel tuo futuro?

Resistere ad una grande tentazione.

Quale?

Il mio fidanzato è infermiere come me ed ha un fratello che lavora in Inghilterra. Gli sembra quanto mai naturale raggiungerlo e iniziate a lavorare subito, vista la richiesta che c’è.

E tu cosa intendi fare?

Lo saprete tra un anno.

Angela ha ripreso il suo nuovo lavoro senza particolari rischi per la sua vita e noi abbiamo ripreso a far finta che il problema non ci riguarda perché è compito dell’UE, del Governo o delle istituzioni. Tanto che rischio corriamo?

 

 

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