"Piccola Atene" di Salvatore Falzone, presentazione a Palermo il 25 marzo 2014.
(22 novembre 2013) – Un curioso “interrogatorio” letterario. Una raffica di domande, poste col piglio professionale dell’inquirente e rivolte all’autore del libro Piccola Atene (Barion), giallo ambientato a Caltanissetta che racconta le avventure di un detective per caso, Gaspare Lazzara, che scivola sul vischio di una provincia in cui si agitano poteri più forti di quanto si possa immaginare.
Lunedì scorso, nell'Aula Loyola dell’Istituto Arrupe, Mirella Agliastro, magistrato in servizio presso la Procura Generale di Palermo, intervenuta insieme a Salvo Taormina e a Mauro Buscemi alla presentazione del romanzo (organizzata dal giornale online SicilyPresent.it e dal Centro Culturale Il Sentiero), ha torchiato Salvatore Falzone. Di quel pubblico interrogatorio, che ha suscitato l’interesse dei presenti, riportiamo il “verbale”.
Gaspare Lazzara ha un futuro letterario?
Non lo so. È già tanto che abbia un presente. Comunque, al momento direi di no.
Perché?
Ho l’impressione che, pur nell’ambiguità delle scelte finali del personaggio, e nonostante la sua giovane età che potrebbe far pensare a una evoluzione, Lazzara non abbia un futuro che non sia quello delle chiacchiere da bar e del quieto vivere che accetta la logica del compromesso.
Lazzara è una parte di sé insoddisfatta oppure è proiettata nel futuro?
È una parte di me nella misura in cui è un personaggio inventato da me. Eviterei letture psicanalitiche, e dunque non parlerei di parte di me insoddisfatta oppure proiettata al futuro.
Ha già provato a scrivere altre trame narrative?
Ho scritto e pubblicato le biografie spirituali di due donne siciliane, Pina Suriano, una ragazza di Partinico morta nel 1950 e proclamata beata da Giovanni Paolo II; e Vincenzina Cusmano, palermitana, sorella del fondatore del Boccone del Povero, che visse e operò nell’Ottocento siciliano.
Qual è l’urgenza di costruire il noir della piccola Atene?
Innanzitutto l’urgenza di scrivere. E poi, forse, un bisogno personale di comprendere meglio la realtà e di interpretarla, offrendone una lettura trasfigurata e in qualche modo più libera.
Qual è stata la genesi del romanzo?
Sono rimasto impressionato dalla costruzione di un centro commerciale al centro della Sicilia e da certe opache vicende ecclesiali. La prima stesura risale a tre anni fa. Ma il vero lavoro, quello di revisione e riscrittura, l’ho compiuto nei sei mesi prima della pubblicazione, nei ritagli di tempo.
Prevale in lei l’anima dell’avvocato o del giornalista?
Vi è una pacifica e rispettosa convivenza fra queste due anime. Le due cose non sono inconciliabili, anzi. Per me la scrittura, anche nella sua versione giornalistica, è una passione, e tale rimane. Ma ho deciso di fare l’avvocato di professione. Per il resto, sono abituato a gestire i miei tanti hobby, con una disinvoltura che forse sfiora l’incoscienza.
Quale dei personaggi ha costruito per intero e quali ha tratto dalla realtà?
Tutti i personaggi, in fondo, sono ispirati a persone esistenti. Ma soltanto ispirati. Cioè sono stati evocati da uomini e donne in carne e ossa che ho conosciuto e osservato anche da vicino. Tuttavia, superata la fase dell’ispirazione, essi sono stati smontati e ricostruiti a tavolino. Il risultato è che non è possibile identificarli. E del resto non avrebbe senso. Anche perché ogni riferimento è puramente casuale, no?
Subisce l’influenza del palazzo di Giustizia di Caltanissetta, che lei ha rappresentato in fotogramma, come simbolo della città o luogo dove si ricompongono gli eventi?
Naturalmente sì, ne subisco l’influenza anche solo per ragioni di frequenza giornaliera. Nel libro però non è certo un luogo dove si ricompongono gli eventi. È piuttosto un simbolo, come altri, di esercizio del potere.
Da dove ha tratto gli echi alla contemporaneità: gli imprenditori antimafia di facciata, i traffici illeciti tra onorevoli, costruttori, e altri soggetti ambigui?
Li ho tratti appunto dalla realtà, che è ambigua per definizione.
Cosa le manca di Gaspare Lazzara e cosa manca a Gaspare Lazzara del suo autore?
Non saprei. Di sicuro a Lazzara manca una sufficiente tranquillità economica, la stessa che lo rende vulnerabile e più esposto alle lusinghe e ai ricatti del potere. A me di Lazzara non manca niente, o almeno così spero: a tratti, è un personaggio un po’ sgradevole.
Ama o detesta Caltanissetta?
Non vorrei fare della retorica. Ma devo dire che la amo e la detesto.
È un ambiente fisico o un luogo letterario?
Come tutti i luoghi trasfigurati dalla letteratura, la mia Caltanissetta ha una doppia esistenza: città reale, presente nel racconto con precisi riferimenti topografici, e luogo di immaginarie proiezioni e rielaborazioni. Dunque una città non inesistente, ma rivisitata. Così come l’intero ambiente provinciale, che mi affascina.
Perché?
Per via della sua ambiguità, della sua dolcezza, spesso solo apparente. La provincia non è solo un sinonimo di esistenza tranquilla. È anche una condensa di contraddizioni. Una cornice avvolgente dove, per un niente, tutti i contrasti, all’improvviso, esplodono. Insomma, ti dà l’illusione di un universo a misura di esistenza, ma sai che non è così, perché angoli di paradiso non sono di questo mondo. E poi è un punto d’osservazione straordinario. Certo, vivendoci stabilmente, il rischio è di non riuscire nell’intento. È come scattare una foto e alla fine ti rendi conto che sei venuto pure tu con la tua ombra. Ma bisogna accettare la sfida logorante di estraniarsi, o almeno far finta.
Cosa detesta di più: la decadenza o la voglia di coprire gli intrighi?
Detesto il fatto che gli intrighi vengono quasi sempre coperti. E che l’equilibrio del sistema non si spezza mai e si ricompone sempre. Invece la decadenza è per me un motivo di fascino.
Perché è così benevolo con l’onorevole Salomone? Sembra che lo assolva, sembra che assolva pure Alvaro, il proprietario del centro commerciale, perché, anche se lo fa morire, lo vittimizza.
Non penso di essere stato benevolo con il personaggio dell’onorevole. E in ogni caso non lo assolvo né lo condanno. Non sono un giudice, e racconto le azioni dei personaggi senza moralismo. Lo stesso discorso vale per Alvaro.
Perché non ha nessuna indulgenza con il vescovo e con il consulente legale della curia?
Sono i fatti, così come congegnati, che rendono questi personaggi forse non meritevoli di indulgenza da parte del lettore.
La mafia non è evocata di fatto, non aveva materiale o lo ha ignorato volutamente?
Si può scrivere un giallo, ambientato in Sicilia, che non parli di mafia? Semmai ho trattato, anche se di sfuggita, la questione dell’antimafia. In questo momento storico il tema mi sembra più attuale. È in azione una certa antimafia, da qualche anno, che rappresenta un fenomeno interessante per chi osserva la realtà. Si tratta di un cocktail sofisticato e potente, fatto di pezzi di imprenditoria, magistratura e politica.
A Caltanissetta non ci sono più le miniere, non ci sono le industrie ma ci sono delle imprese che si sono legate in un unico progetto anche etico ispirate alla legalità. Perché si è riferito solo a quelli di antimafia di facciata?
Ripeto: ho soltanto raccontato una storia di intrighi e di potere. E in un simile contesto narrativo non potevo che riferirmi che agli imprenditori della finta antimafia. Detto ciò, bisognerebbe sapere se chi si ispira, come dice lei, alla legalità faccia antimafia sul serio oppure per finta. Forse non basta salire e scendere dalle procure e firmare protocolli per combattere con efficacia la mafia.
Perché non ha deciso di dedicarsi al giornalismo di inchiesta?
Perché ho deciso di fare l’avvocato. Il giornalismo che faccio, tempo permettendo, è di stampo culturale.
A Caltanissetta ci sono comunque degli imprenditori coraggiosi. Non crede che vadano sostenuti e distinti da quelli della vacua antimafia?
Non tocca a me sostenerli. Un romanzo non deve avere simili finalità.
Foto in alto, da destra: Mirella Agliastro, Mauro Buscemi, Salvatore Taormina, Salvatore Falzone (ph. Cristina La Manna)
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