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(10 aprile 2014) – Due capolavori, coinvolti dentro una sola trama narrativa, hanno marcato per sempre il carattere siciliano portandolo oltre la letteratura e la cinematografia con un insieme di accezioni che legano cultura e costume lungo la linea della storia. Il Gattopardo è l’opera nata dall’ingegno straordinario di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e, pubblicata postuma, non senza difficoltà arriva per la prima volta tra gli scaffali delle librerie nel 1958. Luchino Visconti la porta sul grande schermo nel 1963, firmando la regia di un film che continua a incantare per la bellezza delle immagini e la cura dei dialoghi con cui ne sono raccontate e interpretate figure e vicende. Il Gattopardo è da oltre cinquant’anni uno tra i romanzi che meglio segna i confini attraverso i quali circoscrivere il tracciato d’ogni giudizio sulla sicilianità. E bene ha fatto il centro culturale “Il Sentiero” di Palermo ad approfondirne il valore in un trittico di incontri, ricorrendo appunto il vicino anniversario dell’uscita nelle sale del film. Lo scorso 29 marzo, a Palazzo Bonocore, in una conversazione conclusiva con Andrea Badalamenti se ne sono sviluppati alcuni aspetti decisivi che rilanciano quest’opera verso le domande ineludibili della vita.
Nel Gattopardo vi sono frasi e questioni mille volte richiamate e riprese secondo intenzioni e finalità mutevoli e cangianti. Tra le pagine della narrazione è contenuta una ricca sequenza di spunti e ragionamenti: dal “tutto deve cambiare perché nulla cambi” correlato al “peccato del fare” mai perdonato a coloro che in Sicilia si mettono in gioco si va verso il giudizio sul “sonno” come condizione del torpore dal quale i siciliani non vogliono uscire e si è spinti fino alla loro radicata presunzione d’essere “il sale della terra” su cui si reggono le sorti del mondo. Ed è quest’ultima, del resto, una pretesa leggendaria raffigurata nel mito di Colapesce, nel quale però prende l’immagine del sacrificio donato per la vita di tutti.
Ma, naturalmente, nel romanzo si trovano idee e concetti che spingono oltre il discorso sul tema indivisibile del fatalismo e pessimismo come dimensioni ataviche assegnate alle sorti storiche siciliane. La contestualizzazione storica in cui si muovono i personaggi è precisa e li pone come figure che fanno i conti con un cambiamento politico e sociale netto. È il momento nel quale la Sicilia entra a far parte del Risorgimento e l’Italia diventa via via una nazione unita nel segno di un Tricolore che porta speranze repubblicane di libertà, democrazia, progresso.
Burt Lancaster nel film di Visconti offre il volto al principe di Salina e con un’imponente forza scenica fa cogliere a tutto tondo il travaglio del periodo, manifestando così una particolare versione di realismo d’impronta siciliana rispetto al rapporto con il potere. Ne è punto sorgivo una sorta di disincanto per le sorti di questo mondo, perché destinate alla polvere e alla vanità. A questa regola non possono sottrarsi dinastie e potenti di ieri, oggi, domani: la storia della Sicilia ne è documentazione inequivocabile. Lo sa bene il principe Fabrizio e Luchino Visconti ne coglie tutta la portata ponendola come attesa di un’umanità in cerca di una bellezza che non abbia fine.
All’inizio e alla conclusione del lungometraggio ci sono due preghiere diverse che sembrano parole puntate verso il cielo come domande in attesa di una risposta. Le ultime parole del principe Salina, pronunciate dopo il gran ballo e quando Venere s’intravede al primo albeggiare del mattino, sono rivolte alla “fedele stella”. E, quasi sillabando parola dopo parola, don Fabrizio le indirizza una richiesta diretta e personale come supplica di “un appuntamento meno effimero lontano da tutto nella tua regione di perenne certezza”. Ebbene, qui è la chiave di lettura di un atteggiamento con cui comprendere la storia, giudicare il potere che cambia di mano in mano e stare di fronte alla bellezza potente della vita.
Sì, perché la festa a palazzo Valguarnera Gangi non è soltanto immagine di nobili siciliani che non riescono ad accettare il cambiamento di società e politica in quel frangente tumultuoso della storia, ma resta soprattutto per l’ingresso nel salone di Angelica Sedara. Claudia Cardinale ne ha interpretato il personaggio rendendone intramontabile il fascino. La bellezza delicata di Angelica si impone sulla grettezza interessata con cui quella sera sono commentati i fatti di Aspromonte del 1862 proprio da coloro, come lo stesso Tancredi Falconeri, che erano stati insieme a Garibaldi e ai Mille solo pochi anni prima. Nel valzer ballato da Angelica e Fabrizio Salina si vede che la bellezza vera della vita altro non è, in fondo, che riverbero della promessa di un bene senza fine atteso oltre l’effimera banalità degli inganni umani.