Sono trascorsi 50 anni dalla scomparsa di Elio Vittorini. L’anniversario è stato ricordato la scorsa settimana, esattamente il 12 gennaio. Lo scrittore siciliano se ne era andato un giorno d’inverno del 1966 a Milano, dopo il passaggio dalla prova difficile della malattia.
Ci sono molte buone ragioni per ricordarne l’opera, rileggendone significati e prospettive lungo la traccia di un percorso che lega la vita di questo scrittore alla sua terra, a quella Sicilia che gli appare per forza di cose costretta «tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne». Ed è bellissima quest’immagine da lui incastonata tra le prime pagine del romanzo Conversazione in Sicilia, quasi a fissarne colori e destino con tratti naturali sfumati e marcati a un tempo.
Elio Vittorini nasce a Siracusa il 23 luglio 1908. La sua esistenza si svolge però altrove. Milano è la città che lo accoglie insieme ai moltissimi che vi accorrono in cerca di miglior fortuna. Tra questi c’è anche lui, partito dalla punta estrema di un sud da dove si va via emigrando, oggi come ieri, perché il pane dato come frutto del lavoro qui non è spesso facile ottenerlo. Vittorini si muove verso il continente portando con sé le risorse delle lettere e forte della speranza di cambiare il mondo promuovendo la libertà che nasce dalla cultura. La sua vita, infatti, scorre veloce tra libri e riviste.
Conversazione in Sicilia è il racconto che rimane a segnarne il rapporto con le sue origini. Non ha un valore autobiografico dichiarato: Vittorini lo annota a margine della trama di questo romanzo che si dipana tra dialoghi, personaggi e raffigurazioni di una terra trasposta in un palcoscenico narrativo a mezza via tra sogno e realtà. Il viaggio del protagonista, il tipografo intellettuale Silvestro Ferrauto, ha la Sicilia come destinazione. Ma «è solo per avventura Sicilia; solo perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela». Significativa importanza assume la versione pubblicata per i tipi di Bompiani nel 1950 con le illustrazioni firmate da Renato Guttuso e Luigi Crocenzi.
Tutta l’opera intellettuale di Vittorini parla al cuore del proprio tempo; in effetti essa è la descrizione letteraria e saggistica dei non pochi punti oscuri di una società in preda a violenti furori ideologici il cui esito tragico è la seconda guerra mondiale. Anche il suo personale tragitto culturale ne è documentazione interessante e originale: da fascista di sinistra, andando avanti negli anni Vittorini volgerà la propria visione del mondo verso il “sol dell’avvenire”, diversamente incarnato nelle due chiavi comunista e socialista, per assumere infine la presidenza del Partito Radicale negli anni Sessanta. Questi passaggi, senz’altro non privi a prima vista di contraddizioni, fanno parte di una direzione di marcia determinata da coerenti premesse e giudizi.
All’intellettuale spetta un compito da cui non può sottrarsi, perché la sua è una missione che interseca il piano pubblico e diventa azione politica nel senso vero della parola. E tale lo è, questo è il punto per lui decisivo, se l’uomo di cultura non diventa strumento cieco dei partiti. La funzione critica della cultura merita il grado più alto della libertà oltre ogni condizionamento; in ciò lo si trova concorde con il pensiero di Benedetto Croce. La storia spesso tormentata di tante delle sue creazioni editoriali si spiega tenendo presente questo filo conduttore. “Il Politecnico”, titolata così proprio per accostarne la linea al giornale ottocentesco di Carlo Cattaneo, e “Il Menabò di letteratura”, fondato insieme a Italo Calvino, sono le due riviste che meglio ne esprimono e pongono in risalto la personalità e le concezioni intorno al ruolo della cultura come occasione per generare progresso.
«Non più una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini». Questa frase è tratta dal primo editoriale della rivista “Il Politecnico”, che vede la luce il 29 settembre 1945. Il titolo, che con sintesi felice riassume le ragioni ispiratrici del periodico, è “Una nuova cultura”. Ancora oggi vi sono spunti in grado di provocare riflessioni e intuizioni, rendendolo attuale perfino rispetto alle questioni del nostro periodo storico.
La cultura non è dimensione diversa da esperienze e fatti che muovono la società; a questa è chiamata a dare forma perché non sia il potere, sia esso politico o economico, a farne il campo dei propri interessi. «Occuparsi del pane e del lavoro è ancora occuparsi dell’“anima”», come Vittorini precisa senza mezze misure a margine di questo suo denso editoriale. Ecco perché non ci sono distinzioni che possano allontanare persone e opere, deprivandole del riconoscimento di un principio generativo di amicizia. Laici e cattolici possono sempre collaborare perché la cultura sia fattore di bene comune vero e concreto, cioè espressione sublimata nei fatti di quella bellezza da tutti cercata nella realtà.