“Mancanze” di Alessandro Fo: il divino tra segni e versi


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Alessandro Fo, Mancanze, Einaudi, Torino 2014


 

Tra i poeti italiani contemporanei d’ispirazione religiosa Alessandro Fo costituisce il più sicuro punto di riferimento. Lo conferma la sua ultima silloge Mancanze, edita da Einaudi e insignita di recente del Premio Viareggio-Repaci per la poesia.

L’anelito al divino, tuttavia, in Fo non si manifesta nell’adorazione o nell’enfasi contemplativa, né nella meditazione teologica. Piuttosto Fo sente la presenza spirituale, assai ‘laicamente’, nei gesti quotidiani, nella prosaica e talvolta apparentemente banale vita d’ogni giorno. Privilegio del poeta, sembra suggerirci Fo, è quello di avvertire nelle vicende, negli accadimenti – anche minimi –, nelle movenze degli uomini e delle donne dentro il labirinto dell’esistenza l’essenza del mistero che vi aleggia, che rimanda a qualcosa di imperscrutabile ed impenetrabile e che si manifesta in tanti modi: nella grazia, nella bellezza, nell’intelligenza, nella sofferenza stessa.

Il titolo della raccolta, Mancanze, pare alludere al difetto, nella generalità degli uomini, di osservare i segni del divino, quei segni che il poeta tenta di ‘afferrare’ e tradurre in versi con laborioso affanno consapevole della sua incompiutezza.

Mancanze si articola in tre sezioni: Libro d’oro, Il tono blu (variazioni Chopin), Figure d’angeli. Tutte e tre le sezioni si chiudono con un’avvertenza d’uso in antiche edizioni, reliquia desiderantur, cioè «il resto manca»: sono le liriche che non figurano nella raccolta per non avere superato la rigorosa selezione del poeta, il ‘desiderato’ che non vede la luce perché ritenuto ‘manchevole’.

Nel Libro d’oro la poesia sgorga dalle pericope delle preghiere; in particolare da quelle del Padre Nostro e dell’Ave Maria. Che sei nei cieli ispira una metafora sull’incapacità dell’uomo di raccogliere il soccorso misericordioso del Padre: un bambino resta fuori il cancello, piange, si dispera e non sente il Padre che dall’alto gli offre il suo aiuto: «Alessandro, – chiamai – scendo, ti apro./ Non preoccuparti più. Dammene il tempo!»/ «Dove sei? – singhiozzò – Non ti vedo…». E sembra alludere a dei riferimenti autobiografici. Fra le donne contrappone l’infinita ed eterna bellezza della Madonna a quelle precarie, «acerbe, mature e decadute poi» delle donne terrene culminando in un interrogativo: «Così contemplando qualcuna di loro/ per una volta ennesima ti chiedi/ se teologicamente,/ e fino a quale soglia, le creature/ si possono ammirare/ con innocenza: senza/ “colpevolezza”, Paolo, si può amare/ il creatore nelle Sue creature?».

La sezione intermedia, Il tono blu (variazioni Chopin), è dedicata alla vita del compositore polacco e alle emozioni della sua musica. «…Come possono valzer così tristi/ giungere a donare tanta grazia?»: da notare che il distico ha in epigrafe un verso di Angelo Maria Ripellino, il poeta siciliano tanto amato da Fo, la cui notorietà di slavista (chi non ricorda il suo Praga magica?) ha offuscato, ingiustamente, la sua fama di finissimo lirico.

Nell’ultima sezione, Figure d’angelo, Fo raggiunge, a mio avviso, le vette più alte. Se nelle prime due la melodia già cattura, nel ‘terzo movimento’ (così piace definirlo accostando la silloge a un’opera musicale come il fluire della versificazione autorizza) la sonorità si sprigiona in tutta la sua classica lievità.

Tanti e diversi sono gli ‘angeli’ di Fo, testimonianze del divino che si cela nelle sembianze umane («L’infinita bellezza del creato/ si rinfrange in singole creature»), nei suoi tratti, nelle sue movenze, nelle sue quotidiane preoccupazioni e vanità, nelle sue afflizioni («Pare che Dio (secondo San Giovanni)/ poti quei tralci che già danno frutto,/ per ottenere maggior frutto ancora»). Vi è l’Angelo bruno: «Sopra il piumino bianco/ neri si spargevano i capelli/ a incorniciare i tratti naturali/ e al contempo irreali/ tenerissimamente sorridenti/ dietro le trasparenze degli occhiali»; l’Angelo a sorpresa (incrociandolo): «Sotto la pioggia, al buio, la figura/ delicata e leggera,/ stivaletti da sera in andatura,/ di fuga verso casa…»; l’Angelo casuale: «Donna bella, elegante,/ perfetta, e un po’ sfiorita/ – sì che tutta la strada/ ne è stata intenerita» (versi che riecheggiano Il seme del piangere di Caproni). Ma vi è anche l’Angelo dubbio: «Ventitre piercing, tredici tatuaggi/…/ Dietro oltranza e trasgressione,/ la solitudine e la fragilità?/ Chiuse il giaccone,/ angelo, ma sì, dài, dopo tutto»; l’Angelo su scale, una Down: «Creatura d’altri mondi, si dispose/ accanto a una bellezza giovanile/ di occhi bruni acuti e luminosi,/ vestita in scuro. In differente stile,/ e quasi per moto contrario,/ due capolavori del Creato». E, ultimo nella silloge, l’Angelo Pesciolino: «Le volò il palloncino/ fatto a coniglio blu./ Prendilo, mamma, presto / che lassù/ troverà tuoni fulmini e tempeste/ avrà freddo e paura/ senza di me, e non ci vedremo più»: anche nel suo universo di ‘piccinerie’ la sofferenza per una mancanza, come nel Montale di Felicità raggiunta: «Ma nulla paga il pianto del bambino/ a cui fugge il pallone tra le case».

La poesia italiana contemporanea, che soffre di arido cerebralismo, si riscatta in questa opera di Fo, poeta coltissimo che fa prevalere ai dotti richiami l’afflato lirico e quella ‘leggerezza’ calviniana, condita talvolta d’ironia, pervasa di una profonda e ‘laica’ religiosità.

 

 

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