Il “Diario” al femminile di Evelina Maffey: Madre natura, luogo delle potenze in conflitto


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Evelina Maffey, Diario di Niobe, Armando Siciliano Editore, Messina 2015


 

Non è solo il mondo classico a restituirci l’immagine della maternità come esperienza centrale e peculiare di un vissuto al femminile segnato dal dolore della gestazione. Il corpo femminile è da sempre elemento primario del mistero ultimo dell’amore. Ora reso nella trasparenza dell’anima, ora costretto all’opacità della materia, il femminile è fonte inesplicabile di quell’amore capace di generare, di far venire alla luce, di dare vita, nella vita, al mondo.

La memoria di Evelina Maffey, restituitaci in questo mirabile ultimo lavoro, il Diario di Niobe, si fa, attraverso la biografia diaristica, mediazione tra l’istanza archetipica della funzione materna e il senso del nostro futuro come uomini del presente. La Maffey, difatti, mentre richiama al fondo dell’ancestrale e primigenia donazione e custodia della vita, nel narrare e narrarsi i momenti intimi della nuova attesa, restituisce le dinamiche di un’attualità contrassegnata dalle esigenze dell’efficienza, della forma e del guadagno. Il refluire della coscienza, l’immediata consegna allo scritto delle sensazioni e dei pensieri, le date che scandiscono l’attesa di un lieto evento caratterizzato tanto dalla sua riuscita quanto dal suo fallimento, si trasformano così in patrimonio immemoriale del distacco dell’uomo e della donna dalla madre natura, dal suo grembo accogliente, promessa di libertà, felicità e armonia.

Le oscillazioni psico-fisiche restituite dal dialogo interiore nel confronto con il mondo ed il cinismo delle dinamiche quotidiane fanno da stridente contraltare alla dolcezza e tragicità dell’evento della nascita. La sete di potenza espressa dalla quotidianità delle corse al profitto si infrange contro un’altra potenza, dolce ma l’unica esistenzialmente efficace: quella di una vita che è atto, da subito, nel suo sapersi “da” e “nel” corpo che la custodisce e che è. Ciò a discapito di ogni razionalizzazione legalistica o biologistica, destinata a rimanere cieca sia rispetto allo specifico dell’atto d’amore che in rapporto a quella istanza di profondo mistero che non può irretire nella propria volontà normativa e delimitante.

La verità della vita del figlio è atemporale atto supremo: dal momento che invade non solo il pensiero e il cuore della madre, la forma e le dinamiche della vita familiare, ma anche i ritmi e le apparenze, l’egoismo e la rinunzia, il sacrifico e la superbia che entrano in gioco nel momento psicologico ed affettivo dell’attesa e della protezione già pronta al distacco. Il vissuto narrativo in tal modo restituisce tutto il pathos dell’amore venturo che è già, da subito, vita attuale e mutamento prepotente e disancoramento delle relazioni del quotidiano; ampliandosi sino a delineare il fatto della vita come ricordo e segno di qualcosa che nella sua irresistibile evidenza parla dell’oggi, dei conflitti, dei luoghi comuni e della armonica natura negataci.

Al vissuto particolare non si accorda, se non nella preziosa e gioiosa amicizia, il fruscio di fondo di apparati sociali che non parlano di un’empatica vita disposta all’ascolto dell’altro, ma tutt’al più di un’asettica medicalizzazione applicata ai corpi. La donna è difatti, prima immagine edènica tutta protesa ai propri frutti, per poi divenire, nel sogno che presiede tragicamente alla rielaborazione del lutto, madre ormai senza volto e luogo del sacrificio della propria multicolore ripetizione simbolica e incarnata. Guerra e oblio sono quindi i fatti che meglio si prestano a rendere il senso di ciò che accade, come nel corpo, tra i suoi pensieri e dolori dissonanti, nel nostro mondo ormai sottratto alla sua gioia naturale e minacciato dalla resa all’ovvio e al consueto: «Penelope e tutte quante, non vivete nell’attesa e nella resa. Scendete nella vita e agite. Il giorno non è più così lontano».

 

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