“La storia di stanni fucusi/ ha zappatu cu l’ugna/ dintra di mia/ e restu scantatu a taliari/ l’omini tutti/ impinnuliati a un filu/ a un distinu sulu/ dinta na varca di pagghia c’affunna”.
I versi di Ignazio Buttitta, come accade con la vera poesia, aprono lo squarcio della profezia mentre scendono nell’abisso del tempo che ci è dato da vivere. Siamo così, appesi al filo sottile di un destino comune, mentre rischiamo tutti, ad ogni istante, di sprofondare nel nulla. E non ce ne accorgiamo. Lo dimostrano i muri con cui cerchiamo di dividerci.
È accaduto per le strade di Gorino, dove, con le barricate, si è impedita l’accoglienza di dodici donne rifugiate in Italia, di cui una in attesa di un bimbo. Ma è inutile “farsi meraviglia”: siamo tutti così, sono dinamiche globali.
In Italia, dove qualche anno fa si protestava contro il reato di immigrazione clandestina, oggi si scende per strada per scacciare chi fugge dalle guerre e dalle persecuzioni. In Inghilterra, patria del multiculturalismo che ha abolito il Natale a scuola per favorire l’integrazione, per salvaguardare l’integrità della nazione si è deciso costruire i muri persino in Francia. È così nell’Europa spaccata da opposti egoismi e non va meglio oltre oceano, nella terra del sogno americano, dove i muri, più che sul confine messicano, rischiano di coincidere nuovamente con il colore della pelle. Anche in Sicilia la tentazione di erigere barriere contro le importazioni di prodotti ortofrutticoli da Tunisia e Marocco è forte e non senza motivazioni condivisibili.
E mentre assistiamo sgomenti alla vista delle macerie della cattedrale di san Benedetto, patrono di quell’Europa ricostruita dalla fede cristiana dopo il crollo dell’Impero e le devastazioni delle invasioni barbariche, un dubbio si insinua profondo come una faglia sismica nelle nostre anime: “non sarebbe meglio pensare prima ai nostri bisogni?”. Già, siamo tutti un po’ Svizzeri.
Ma anche quanti sono impegnati a costruire e a ricostruire, nei luoghi di incontro e di dialogo, tra gli hot spot e le piazze referendarie, tra gli edifici appena caduti e quelli che si continua a puntellare, anch’essi vivono la frustrazione di chi si oppone a forze che lo sovrastano. È il dramma dell’impotenza di quanti prendono sul serio il dolore dell’umanità ferita del nostro tempo e sperimentano che la nostra capacità di risposta è incommensurabile rispetto alla mancanza che pure vorrebbe riempire: “Sentu ca la me vuci / chi li chiama di luntanu/ – scrive il poeta di Bagheria alla vista dell’umano che affoga e che non può salvare – avi li limiti e cunfini d’amuri”.
L’immagine dei frati inginocchiati davanti alla statua di San Benedetto al centro della piazza, sulla quale fino a ieri si affacciava la stupenda cattedrale di Norcia, è il segno di un’anacronistica ostinazione che si rifiuta di constatare che siamo soli e che il nostro grido non è ascoltato da nessuno? Oppure quel gesto ci ricorda che siamo nulla, che il rapporto con Dio non è un’assicurazione che impedirà che accada a noi ciò che colpisce tutti i nostri fratelli uomini, che siamo tutti mendicanti di una mano più grande che tenga stretto il filo del nostro destino e non ci lasci cadere; di un rapporto misterioso e buono a partire dal quale è possibile ricostruire la vita, la bellezza e il cuore palpitante di un’umanità nuova.
“Mi vogghiu svacantari – conclude la poesia di Buttitta dedicata a Pasolini, in un appassionato desiderio di cambiamento di sé che è vera radice di ogni passione per il destino comune – scurciari/ farimi la peddi nova/ comu li scursuna”.