L’attesa del Natale non finisce mai

 

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(24 dicembre 2014) – Aspettiamo. Da quando siamo giunti in questa Terra, che gira sotto i nostri piedi, noi aspettiamo; siamo nati aspettando, e non abbiamo mai smesso di farlo; in costante e ammalata ricerca di avere, di prendere, di vincere, di sovrastare, di insultare, di umiliare, noi aspettiamo, aspettiamo sempre, come se il nostro momento ci fosse dovuto: una vendetta contro il tempo.

Le strade, i marciapiedi, le chiese, le case, le scuole, focolari dei nostri capricci, delle nostre liti, del pulsante egocentrismo che ci ossessiona, che non ci fa dormire, non ci fa pregare, e ci fa dimenticare chi siamo e chi siamo sempre stati. La nostra è un’attesa che non conosce né tregua né pace; niente ci basta, niente ci appaga, e noi… aspettiamo.

Un sospetto, o qualcosa di bello sceso su qualcun altro, ci è sufficiente per decidere di aspettare l’istante in cui sarà l’altro a fallire, perché troviamo giusto che debba cadere anche lui, e non soltanto noi. La nostra esistenza, forgiata dal bisogno convulso di stare in piedi su un’alta cima, per farci applaudire da chi è rimasto indietro, noi la riempiamo di noi stessi, e di vane vittorie.

Le nostre guerre, di bravura, di competizione, di umiliazione, altro non sono che le nostre attese, le nostre ingrate attese, che a nostra insaputa ci portano via tutto; gli affetti, i ricordi, le condivisioni, il benessere, la gratitudine, le amicizie. Tutto, tutto si va sgretolando, ed ogni pensiero invidioso, è un frammento di vita che si spezza, una persona che dimentichiamo.

Ma noi aspettiamo, aspettiamo sempre. Aspettiamo di sapere che l’altro sia infelice come lo siamo stati noi, e allora ci sentiremo meglio, appagati: perché questo è l’equilibrio che ci diamo. Se solo ci rendessimo conto che non c’è peggiore sentimento umano dell’invidia, che non ci fa godere delle gioie degli altri, e che piuttosto ci fa soffrire, perché non sono nostre, allora saremmo felici.

La felicità che cos’è in fondo? Sono piccoli attimi di riconoscenza, istanti di luce che ci attraversano, abbracci di altruismo, il cui potere è immenso. Ma abbiamo troppa paura che non arrivi nessuno a occuparsi di noi per prenderci cura degli altri. Ci sentiamo soli, e vogliamo soli anche gli altri, perché questo ci consola; i disagi di altri appagano in silenzio le nostre vite.

Ma che cosa raccoglieremo? Che cosa ne faremo delle nostre liti? Che cosa ne faremo di quegli applausi che finiranno alla fine del concerto? Che cosa ce ne faremo del nostro orgoglio? Che cosa ce ne faremo del nostro spinoso egocentrismo? Che cosa ce ne faremo della nostra presunzione? Che cosa ce ne faremo del nostro finto affetto? Niente, non ce ne faremo niente.

Al termine di quel breve momento di gloria, ne vorremo un altro, e poi un altro, e poi un altro ancora, perché l’amico, che in fondo detestiamo perché troppo felice, possa vedere le nostre vittorie, e mai raggiungerci. Mai. Queste sono le guerre che i telegiornali non raccontano, queste sono le battaglie che combattiamo, e che lasciano lungo le strade molte più anime ferite.

Ma se imparassimo ad aspettare che sia la Vita a decidere cosa darci, senza rincorrere morbosamente le folle, se finalmente capissimo quanto bisogno abbiamo degli altri, allora sì, saremmo felici, e le nostre attese non sarebbero né vane né invidiose. Credere, è qualcosa che possiamo fare, è qualcosa che possiamo dare, sebbene nessuno e niente ce lo imponga; ma noi vogliamo credere solo alle cose che arricchiscono le nostre case, e non le nostre anime, perché l’anima non si vede, i soldi, una bella casa, un conto in banca invece sì. Siamo questi, siamo sempre stati questi, e nonostante le terribili gesta che compiamo ogni giorno, il tempo ci dà sempre tempo: come se potessimo sempre recuperare, perdonare ed essere perdonati.

Ci piace parlare di Dio, ci siamo ormai convinti di averne diritto, ma ce ne siamo dimenticati; non ne abbiamo più ricordo, né in fondo ci interessa; qualche volta ci fa comodo nominarlo, per apparire santi, eppure poi torniamo a casa, e se quell’amico ci telefona per offrirci una buona notizia, noi ci mordiamo le labbra sotto la cornetta, e ci domandiamo vigliaccamente perché non sia accaduto a noi invece che a lui. Ci trattiamo male, e lo spacciamo per bene.

Ciononostante, siamo sempre in tempo, siamo ancora in tempo: perché Dio c’è, e dubitarne non lascia che un’eterna sospensione; gli alberi, esattamente come Lui, non parlano, ma ci meraviglia la loro grandezza, la vediamo, la tocchiamo, ci fa sentire piccoli, come innanzi a una basilica, e le loro radici tengono ferma la Terra, quando l’egoismo la fa tremare.

E noi aspettiamo, aspettiamo sempre, e aspetteremo anche stanotte, perché questo facciamo ogni anno, ogni Vigilia di Natale: aspettiamo. Ma questa piccola attesa, dall’apparenza recitata, è l’unico giorno, la sola notte che impieghiamo in una giusta attesa, l’unico giorno in cui guardiamo gli altri come se li conoscessimo tutti. Ed è così che deve andare, e quest’unica notte non sarà mai la stessa, e continueremo ad aspettarla. 

  

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