Presepe: attualità di un simbolo

 

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(3 gennaio 2015) – Ed anche questo Natale è passato! (Finalmente). Già, diciamolo sommessamente: ma in fondo anche Natale è una gran fatica. Certo, condita con tante piacevolezze: rivedere parenti e amici, mangiare meglio del solito, non lavorare per qualche giorno; ma è pur sempre una fatica. Fatica è organizzare il pranzo, comprare i sempre meno costosi regali, condividere il tempo con tanti altri. E poi c’è sempre il problema della mancanza dei soldi. Già! Perché un Natale con meno soldi è sempre un Natale più faticoso: meno viaggi, meno regali, meno divertimenti. Il Natale ci lascia sempre con una certezza: quello del prossimo anno sarà certamente migliore. Ed ora tutti protesi verso la prossima grande illusione: dimenticare per una notte, quella di Capodanno, tutti i guai che ci affliggono e sperare che il 2015 sia migliore del 2014 (sapendo che in fondo non sarà molto difficile!).

Del Natale appena trascorso rimane ancora per qualche giorno un segno: il Presepe. Certo, insieme all’albero, alle luci, alle canzoni natalizie, a qualche regalo; ma il Presepe rimarrà come da tradizione fino al giorno dell’arrivo dei Re Magi.

Tra tutti i simboli natalizi, il Presepe è il più antico e proprio per questo quello che ha dovuto confrontarsi e scontrarsi in tanti secoli con i cambiamenti intervenuti nel mondo e fra gli uomini.

Il Presepe dimostra la sua immutata attualità proprio perché ha saputo attraversare quasi mille anni di storia, sapendo adattarsi e dare significato al mutamento delle correnti artistiche, delle ideologie, dei costumi e delle tradizioni dei popoli. Ogni nazione ha saputo trovare nei secoli una forma di Presepe che la potesse esprimere a partire dalla razza, dalla cultura, dai luoghi ambientali.

Nell’Occidente e in Italia in particolare il Presepe ha saputo attraversare dal dopoguerra ad oggi anche fenomeni molto importanti. Negli anni ’50 i genitori facevano il presepe in casa con i figli. Bisognava sperare che ogni anno le statuine in terracotta uscissero indenni dai fogli di giornale che erano servite a difenderle dagli urti; poi c’era il rito della raccolta del muschio, rigorosamente fresco e ben nutrito dalle piogge di dicembre; e per ultimo l’aggiunta ogni anno di una casetta in più, fatta con materiale di fortuna, messo da parte nel corso dei dodici mesi precedenti.

Poi è giunta l’era della plastica ed anche il presepe si è adattato ai nuovi materiali e alle nuove comodità. Pastori indistruttibili e tutti rigorosamente uguali, muschio sintetico, meritevole solo di essere conservato, illuminazione interna e diffusa, rigagnoli di acqua naturale, ecc. Nelle case diminuiva però lo spazio ed il Presepe doveva trovare riparo in angoli sempre più angusti e meno in vista. Fino alla produzione di kit da presepe, forniti di tutto: bastava pagare e aprire lo scatolo.

Col Sessantotto il presepe nostrano dovette fare i conti con l’ideologia. Iniziò un mutamento del paesaggio e dei personaggi: comparvero guerriglieri, iscritte inneggianti alla rivoluzione, appelli contro la corsa agli armamenti, ma fu in grado di sopravvivere anche a tutto ciò. Poi, grazie alla fantasia dei napoletani, fece spazio alle statuine di Maradona, di Mina, di Andreotti, e di tanti personaggi dalla chiara popolarità che furono collocati in prossimità della grotta.

Più di recente il vento del cambiamento ha cominciato ad intaccarne anche le fondamenta antropologiche. Nel 2011 in un centro sociale bergamasco, fu allestito un presepe senza Maria, ma col bambinello accudito da genitori gay, rappresentati da due statuette di Giuseppe. Una sorta di «coppia di fatto» che forse aveva usufruito «della fecondazione eterologa». Quest’anno è accaduto a San Miniato: nel Presepe sono comparsi due pastori che insieme si tengono sotto braccio. Tra le mani di uno un cartello ispirato alle parole del Papa: «Cerchiamo di superare la cultura dello “scarto” con la cultura della solidarietà». L’attenzione dei media nazionali si è subito accesa, visto anche che il presepe era collocato nella stanze del seminario vescovile. È assolutamente plausibile che tra i pastori vi fossero omosessuali; più difficile pensare che utilizzassero l’occasione per lanciare messaggi di quel tipo.

Ma la vera novità di questi ultimi anni è l’attacco frontale che è stato portato al Presepe in quanto tale. Luogo dello scontro le scuole dove sempre più numeroso è il numero di quanti non lo vogliono in ossequio ad una certa concezione della laicità e del pluralismo. Tralasciamo per una volta i temi triti e ritriti di questo dibattito e «affrontiamo il toro per le corna»: perché il Presepe (e non tanti altri simboli religiosi) fa tanto problema e, quindi, paura? Perché la ricostruzione storica di un avvenimento di duemila anni fa è intollerabile per la cultura di oggi? Perché l’Umanesimo, il Rinascimento, l’Idealismo hanno potuto convivere con il Presepe senza intraprendere una lotta iconoclasta come quella di questi anni. Solo l’ideologia marxista più estrema si è spinta tanto in avanti.

La risposta è tanto semplice quanto dura: il Presepe, in qualunque condizione, situazione, ambiente, contesto, richiama ad un avvenimento insopportabile: l’irrompere nella storia di un Altro. Si può manipolare la ricostruzione storica come si vuole, si può fare un Presepe tra le stelle o sotto il mare, ma finché ci sarà un Gesù Bambino che nasce non per decisione degli uomini del tempo o del luogo, ma per l’intervento esterno di un Dio, ciò provocherà reazioni. Non è tollerabile l’esistenza di un Dio che decide di prendersi cura degli uomini, senza verificarne la disponibilità ad accoglierlo, magari con un referendum online, perché l’uomo di oggi deve affermare la sua indipendenza da tutto e quindi anche da Lui. Ciò che non intendere accettare è che qualcosa che venga da fuori da lui stesso possa essergli di aiuto nel divenire se stesso.

Questi anni passeranno alla storia come quelli in cui l’uomo ha ingaggiato una strenua lotta contro ogni forma di trascendenza. Finora ci si è accontentati di ridurre la divinità di Gesù Bambino a una dimensione sociologica, talvolta politica, spesso consolatoria o sentimentale. Ma alla fine la divinità di quel bambino nato alla periferia dell’impero, in una anonima notte di dicembre, ha finito con l’imporsi. Lo si è messo a confronto con altri simboli: Babbo Natale, l’albero, ecc. Si è tentato di ridurre e riempire il Natale di appelli alla bontà, alla pace, alla serenità. Tutto giusto, ma tutto vano. L’uomo desidera una pace duratura, ma non è in grado di darsela, come anche i conflitti in corso in questi giorni dimostrano. In quella mangiatoia non è nato un bambino qualunque ma Uno che è entrato nella storia in modo dirompente e con cui tutti dobbiamo fare i conti. Questo è ciò che capirono i pastori e tutto ciò è quanto hanno capito gli uomini in duemila anni. Ognuno è libero di crederci o non crederci; ma il fatto rimane.

Oggi però non è sufficiente tentarne una riduzione, si è aperta la partita decisiva: eliminare il ricordo di quel fatto per estirpare dal cuore umano la possibilità che la risposta al desiderio di ogni uomo sia quell’inerme bambino che - divenuto uomo - sarà pietra di paragone e di scandalo per tutti, nei secoli dei secoli, fino ad oggi. Ecco perché tanto accanimento nel togliere nei luoghi pubblici, soprattutto in quelli educativi, il Presepe. La sua sola presenza potrebbe ricordare ai passanti che non si sono fatti da soli e che Qualcuno è andato loro incontro.

San Giovanni Paolo II teneva sulla sua scrivania due Presepi per ricordargli l’avvenimento dell’Incarnazione. Proviamo a ricordare questo fatto quando, dopo l’Epifania, giunti i Re Magi, riporremo negli scatoli le statuine. Proviamo a lasciare in giro per la casa il Bambinello, come era nelle case dei nostri nonni. Ci aiuterà a non dimenticare che l’anno prossimo nel fare il Presepe faremo memoria di un fatto non solo accaduto, ma presente ancora oggi: libero ciascuno di crederci o non crederci.


Nella foto: raccolta di statuine del presepe di Occhiolà in esposizione, fino al 14 febbraio 2015, nella mostra “La bellezza della fede popolare” allestita nella chiesa San Francesco Borgia, in via Crociferi a Catania.


 

 

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