(7 gennaio 2015) – Sono stato durante le feste natalizie a visitare la bella mostra allestita a Palazzo Zito a Palermo dal titolo “Di là del faro”, una esposizione di oltre 100 opere con paesaggi dei pittori siciliani dell’Ottocento, curata da Sergio Troisi e Paolo Nifosì, promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro-Italia e organizzata da Civita Sicilia. Una mostra quanto mai interessante, anche perché allestita a villa Zito parzialmente visitabile dopo l’impegnativo intervento di restauro che si concluderà nel febbraio del 2015. Una mostra che, al di là dei tanti meriti artistici, ampiamente documentati nel catalogo che l’accompagna, restituisce ai palermitani e ai turisti un’esposizione che riesce a colmare un vuoto culturale, dovuto alla scarsa attenzione riservata fino ad oggi alla pittura paesaggistica siciliana.
Giunto alla fine del percorso mi stavo intrattenendo su uno degli ultimi quadri, quello di Pietro De Francisco che rappresenta uno scorcio della Sicilia costituito fondamentalmente da tre elementi: un’agave in basso; il tronco di una sughereta al centro ed una montagna sullo fondo. Un quadro dalla storia particolare: dipinto dall’autore nel 1908 rimase sempre nella sua casa perché non volle venderlo, quasi a suggellare per tutta la vita il suo rapporto con la sua terra, con la Sicilia, come lui la vedeva e la percepiva.
Mentre mi accingevo a lasciare la sala una voce alle mie spalle tra il serio e il faceto ha esclamato: “Ma che Sicilia è mai questa, senza né una coppola né una lupara” Ho deciso, sopprimendo un innegabile istinto contrario, di “lasciare cadere la cosa”, ma la battuta, certamente fuori luogo, esprimeva compiutamente e negativamente quanto la mostra riesce positivamente ad affermare: questa è la Sicilia vista dai siciliani, e, se è consentito, questa è la Sicilia dei Siciliani. In barba agli stereotipi che l’hanno accompagnata e l’accompagnano tutt’oggi.
Una Sicilia descritta dai paesaggi, ma non solo, che attraversa quasi cento anni di storia racchiusi prevalentemente tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: una Sicilia reale, fatta di ambienti soprattutto campestri, in cui vivono uomini e cose della vita quotidiana, impegnati spesso nella lotta per la sopravvivenza, ma contenti al tempo stesso di quello che la natura concede loro. Quegli anni sono anche quelli della Belle Époque, che soprattutto a Palermo furono impersonati dalla famiglia Florio e dai fasti dell’Art Déco. Ma anche questa esaltante esperienza viene vista e giudicata dai quadri in mostra in modo “normale”. Significativi sono ad esempio i dipinti di Antonino Leto, chiamato a Marsala per sostenere con la sua arte l’impegno economico della famiglia Florio, che fece senza indulgere allo sfarzo e la ricchezza di quegli anni, ma illustrando il lavoro nelle saline e l’impegno quotidiano degli uomini del lavoro nelle tonnare.
In una Regione in cui per dare maggiore identità ai suoi abitanti si è dovuto aggiungere all’Assessorato per i Beni Culturali la dicitura “e per l’identità siciliana” questa mostra aiuta a capire più di tanti appelli e di tanti proclami.
Ha perfettamente ragione, dunque, Emmanuele Emanuele, presidente della Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo, quando afferma che « è unica nel suo genere, in quanto per la prima volta vengono riuniti in una sola mostra pittori esclusivamente siciliani o stabilmente attivi in Sicilia. È un excursus artistico che [...] offre al visitatore l’essenza della Sicilia del XIX secolo, attraverso i suoi paesaggi a volte aspri, a volte struggenti, attraverso i profili della maggiori città (tra cui la mia Palermo) e dei loro dintorni, attraverso la raffigurazione delle principali attività dell’uomo, dalla pesca all’agricoltura, fino al lavoro nelle miniere».
Mentre mi accingevo ad andare via, il silenzio delle sale, forse un po’ ovattato e surreale, è stato rotto dal vociale di un gruppo di visitatori, alquanto eterogeneo nella sua composizione, almeno con riferimento al pubblico che abitualmente visita le mostre. Una trentina di persone, composto da ragazzi, giovani, adulti e anziani, insomma almeno tre generazioni insieme, si accingeva a ripercorrere l’itinerario.
Una ragazzina di scuola media, capelli neri e sguardo incuriosito, prima di iniziare la visita ha chiesto alla mamma: “Perché questo titolo? Ma che vuol dire Al di là del faro? Ma di quale faro si tratta?” La domanda mi è sembrata quanto mai pertinente. Infatti, perché per parlare della Sicilia di cento anni fa è stato necessario ritornare ad utilizzare una dicitura che storicamente ha segnato la vita e la storia del Regno di Napoli dei secoli scorsi? Il riferimento storico è alla divisione territoriale del Regno delle due Sicilie che comprendeva i territori della terra ferma (al di qua del faro) e dell’isola (al di là del faro, ovviamente di Messina). Ma al di là del riferimento geografico, la distinzione ha sempre voluto ed esprime una sorta di distinzione culturale che l’insularità ha provveduto ad incrementare nel corso degli anni.
E mentre la mamma cercava con semplicità e competenza di spiegare alcune di queste cose continuavo a chiedermi: ma chi sono questi? Che ci fanno di sabato pomeriggio ad una mostra così impegnativa? Saranno parenti venuti dal nord per le feste? Saranno amici dello stesso condominio in cui abitano? Faranno parte di qualche associazione culturale o di qualche parrocchia? Ciò che mi ha colpito è l’immediato ritorno al silenzio quando qualcuno tra i più grandi ha iniziato ad illustrare i primi dipinti. Lo sguardo di quei giovani e di quegli studenti non era quello annoiato e distratto dei loro coetanei durante le visite scolastiche organizzate, delle quali gli studenti apprezzano soprattutto la possibilità per un giorno di non essere interrogati.
Ho deciso di fermarmi ancora un po’, confondendomi tra i visitatori. I più piccoli erano interessatissimi a vedere com’era Palermo tanti anni fa e la spiegazione dei loro nonni, coetanei dei personaggi di tante vedute, aggiungeva valore storico e testimonianza umana alle descrizioni scientifiche della persona che si era forse improvvisata “guida per un giorno”.
Avrei voluto rifare il percorso con loro, ma mia moglie mi richiamava ad un dovere ancora più impellente: gli ultimi acquisti da fare utilizzando i saldi appena iniziati. Ancora una volta la crisi si imponeva. Bisognava andare. Scendendo le scale ho compreso una cosa che mi era sfuggita: quella Palermo, quella Sicilia, non è una cartolina da conservare, non è un’occasione per ricordare come eravamo. Se vogliamo evitare di essere schiacciati sugli stereotipi che ci hanno appiccicato addosso (forse anche per nostra ignavia) ci vuole un soggetto, un popolo che rifaccia sua questa storia, la ami per quella che è, e la cambi per quello che può. Quella trentina di persone fanno parte di questa possibilità. Speriamo che gli alibi della crisi non prevalgano sul desiderio del cuore.