(2 febbraio 2015) – Il mondo greco romano non si è convertito a nessuna delle religioni orientali, non si è convertito alla filosofia, non si è convertito al giudaismo; ma si è convertito al cristianesimo. Perché? E soprattutto, questo fenomeno che ha investito il mondo antico ha una pertinenza con le urgenze e le esigenze del nostro momento storico?
Queste questioni hanno costituito il filo rosso della presentazione del testo di Gustave Bardy, La conversione al cristianesimo nei primi secoli (Jaca Book, Milano 2002), proposta il 30 gennaio nel salone della Chiesa Sant’Ernesto a Palermo dal Centro Culturale Il Sentiero sulla scorta dell'ormai tradizionale appuntamento della presentazione del "libro del mese": una proposta di lettura mensile per sostenere il lavoro personale e comune, nella consapevolezza che «leggere partecipa al percorso educativo per la ricostruzione dell'umano» (Luigi Giussani).
Stavolta l'oggetto della presentazione – che vuole essere sempre anche un invito alla lettura, perché solo nel paragone personale si scopre ciò che fa vivere – è stato proprio il testo di Bardy: un libro all'apparenza non agevole, massiccio, ricco di riferimenti alle fonti, ormai datato (la prima edizione è degli anni '40). Una proposta ardita, dunque, non solo dal punto di vista della forma ma anche del contenuto: lo studio del fenomeno della conversione al cristianesimo nel periodo che va dagli anni appena successivi alla morte di Cristo al III-IV secolo.
La presentazione, a cura di don Carmelo Vicari, è stata un tentativo di mostrare la portata di questa proposta di lettura, proprio attraverso un lavoro serrato sulle domande riportate in apertura.
Innanzitutto, leggere Bardy è decisivo perché bisogna parlare di ciò che conta con chi ritiene che ciò, appunto, conti: sembra un banale gioco di parole, ma non lo è per nulla. La conversione al cristianesimo nei primi secoli fu un evento dirompente per il mondo antico e le sue conseguenze arrivano fino ad oggi; il primo rischio è proprio quello di negare la portata dell'evento.
Accadde allora che una setta, proveniente da una parte marginale dell'impero romano, composta per lo più da gente sicuramente non in vista, conquistò nel giro di tre secoli il grande impero romano; non tanto (o non solo) in termini di potere, ma soprattutto al livello della concezione di sé. Fu un fenomeno tale da incidere sull'identità della persona: don Carmelo Vicari ha parlato, a proposito, di big bang storico dell'umano. Sorse allora un fattore talmente dirompente che ancora oggi entra nella definizione che noi diamo di noi stessi. Ormai abbiamo forse dimenticato – ma Bardy lo riporta all'attenzione – che nel mondo antico non esisteva la persona: c'erano i cittadini romani, coloro che non avevano la cittadinanza e infine gli schiavi, che non erano considerati esseri umani ma cose. La prima rivoluzione fu proprio nella concezione dell'io, e questo costituisce anche la sintesi delle ragioni per le quali un cittadino dell'impero poteva aderire al cristianesimo: il cristianesimo offriva uno sguardo nuovo sull'io e sulla realtà, che rispondeva alle esigenze a cui nessuno, nel mondo antico, era riuscito a rispondere. Esigenza di verità, esigenza di libertà, possibilità di bontà autentica: una risposta per tutti e per tutta la persona, mentre le risposte allora disponibili erano sempre, come ha sottolineato don Carmelo Vicari, parziali e selettive: per alcuni e per certi aspetti.
Perché, dunque, la conversione al cristianesimo? Perché i cristiani erano una presenza: un popolo nuovo, la cui nota distintiva era la letizia, la possibilità di vivere un giudizio positivo sul reale, in un momento in cui si andavano costruendo le premesse perché di lì a poco crollasse il sistema sociale, le popolazioni stanziate fuori dall'impero cominciassero a rifluire in massa dentro i confini, scoppiassero epidemie e crisi di approvvigionamento. I cristiani vivevano tutto questo, come ha detto con espressione sintetica vivacissima don Carmelo Vicari, cantando. Proprio a questo livello si registra la pertinenza del testo di Bardy – e dell'esperienza che descrive – alle questioni del nostro tempo: solo un'esperienza di corrispondenza così, di questa letizia, può far ripartire l'io e commuovere l'umano rattrappito. Con le parole di don Vicari: alle schiavitù odierne, alle gravi questioni suscitate dall'incontro con le diversità, al problema della violenza – in tutte le sue forme – può rispondere solo un popolo di cantautori. Un io che ricomincia a vivere e comunica la vita tutt'intorno a sé. Il riferimento conclusivo non poteva non essere all'Evangelii gaudium: è la gioia per una presenza che sostiene la storia di un'umanità nuova. Questo il fattore che Bardy tratteggia, proprio attraverso quel continuo riferimento alle fonti di cui in apparenza si crederebbe di poter fare a meno.
Tutto questo, nella consapevolezza che di un mistero si tratta. Le affermazioni fatte in apertura, tratte dal testo di Bardy, proseguono, infatti, così: «la rapidità e la profondità di questa conversione sollevano gravi problemi e, prima di ogni altro, questo: perché il cristianesimo è riuscito là dove sono falliti tutti gli altri tentativi di trasformazione o di conquista degli spiriti antichi? Una risposta adeguata a questa questione è impossibile». Una risposta umanamente compiuta chiede il riconoscimento di qualcosa che solo umano, certamente, non è.