Tocca oggi a Gaetano Marsiglia, seminarista palermitano, commentare la Lettera dei Vescovi siciliani in occasione del 25° anniversario dell’appello lanciato nella Valle dei templi da San Giovanni Paolo II.
Nel 1993 lei aveva 6 anni. Forse non ha grandi ricordi di quel giorno, ma certamente quelle parole lo hanno accompagnato negli anni dell’adolescenza. Come hanno influenzato la sua formazione giovanile?
Vaghi ricordi abitano ancora la mia memoria, sopratutto in riferimento agli attentati dei giudici Falcone e Borsellino dell’anno precedente. Ricordo in autostrada l’odore fortissimo di gomma bruciata che sentii dalla Fiat panda dei miei genitori, i quali mi portarono con loro sul posto qualche ora dopo l’attentato di Falcone. E sulle spalle di mio papà osservavo con gli occhi di bimbo curioso la voragine provocata dall’esplosione. Posseggo anche un vago ricordo della strage di via D’Amelio, in modo particolare la confusione e le transenne che impedivano l’accesso ad una buona parte di via Autonomia Siciliana, dove ci recammo come famiglia dopo aver sentito il boato da casa. E l’anno dopo vidi e ascoltai in TV le celebri parole di Papa Giovanni Paolo II: “Convertitevi! Una volta, un giorno, verrà il giudizio di Dio”. Parole che chiaramente non compresi, ma che grazie ai miei genitori intuii essere legate alle recenti stragi che avevano segnato la nostra città. Parole forti, che tuttavia negli anni successivi di crescita hanno generato in me un forte senso di timore in relazione al fenomeno mafioso. Timore alimentato dall’apprensione dei miei genitori e dei miei nonni: “Bisogna avere sempre gli occhi aperti, non ti fidare di nessuno”. In quegli anni il legittimo senso di protezione nel contesto familiare in cui vivevo era più grande dell’appello profetico lanciato dalla Valle dei Templi. C’era bisogno di tempo per comprenderlo.
Quelle parole che significato assumono oggi nel contesto in cui vive, cioè la città di Palermo? Quali riflessioni le ha prodotto la lettura della Lettera?
Oggi, in quanto cittadino adulto, sono convinto che la “pace relativa” di cui gode Palermo è frutto del sangue innocente versato. Sono profondamente grato a tutti i testimoni della giustizia e, più o meno direttamente, della fede. In quanto cattolico in formazione verso il sacerdozio le parole di S. Giovanni Paolo II non possono non risuonare forti nella mia coscienza credente. Per me sono un forte appello nel non aver mai timore di annunciare coraggiosamente sempre e dovunque la bellezza e la potenza trasformante del Vangelo di Gesù Cristo. Su questa scia la lettera dei Vescovi di Sicilia afferma l’esigenza di recuperare il linguaggio profetico della Chiesa, l’unico che può penetrare i cuori più induriti. La denuncia profetica della Chiesa trova il suo fondamento nel Vangelo che è un lieto annuncio. La denuncia si fonda sul lieto annuncio. Per questo profeticamente si deve affermare che “la mafia è peccato”, le organizzazioni mafiose sono strutture di peccato e che urge la conversione personale ed ecclesiale. Conversione non a parole, ma reale, visibile, concreta.
Più in particolare, i suoi amici seminaristi, alcuni dei quali non erano neppure nati quel giorno, come hanno accolto questa lettera? L’hanno percepita come rivolta a ciascuno e personalmente a ognuno o si è trattato dell’ennesimo seppur importante documento sulla lotta alla mafia?
La tentazione sempre presente nella lettura e nello studio dei documenti ecclesiali, soprattutto in un cammino di intensa formazione come quella del seminario, è quella di ritenerli dei meri documenti. La fatica e allo stesso tempo la bellezza più grande che sperimento insieme ai miei compagni di seminario è quella dell’incarnazione. Occorre incarnare, ancor prima di questo documento, il Vangelo stesso. L’invito antico e sempre nuovo è quello di seguire Gesù Cristo ogni giorno. E la sequela è sempre un fatto personale ed ecclesiale, che necessariamente e conseguentemente si scontra con le logiche mafiose. Vangelo e mafia sono incompatibili. E ciò che il documento afferma è esattamente questo: basta con le parole, servono fatti concreti, annunci profetici, azioni educative, pedagogie performative che formano le coscienze di ogni battezzato. La sfida è: desideriamo realmente percorrere questa strada?
Nella lettera dei Vescovi vi è un vibrato appello alla necessità di un’azione educativa per combattere la mafia. I giovani la percepiscono vicina a loro in questo percorso?
La preoccupazione più grande dei giovani attualmente è quella del futuro, quella della loro vocazione, la paura di fare scelte di vita. È ciò che emerge dal cammino finora compiuto in vista del sinodo di ottobre. Pertanto la questione mafia sembra non essere una tematica urgente. La sfida nella formazione delle coscienze giovanili ad una cittadinanza responsabile alla luce del Vangelo può dunque trovare una soluzione nell’integrazione sapiente tra vocazione e impegno sociale. Nell’accompagnamento alla ricerca vocazionale alla libera professione, alla vita matrimoniale, alla vita consacrata ecc., occorre integrare una formazione incisiva sulla questione mafiosa.
Il primo e più importante avamposto di contrasto alla mafia è la parrocchia. Nella preparazione al sacerdozio lei è già coinvolto nella esperienza di una parrocchia di Palermo. Nella sua esperienza vede in essa esperienze o segnali di reale contrasto?
Segnali evidenti di reale contrasto non ne ho visti. Qualche caso di seria riflessione e discernimento si è verificata nell’occasione di richiesta di sacramenti da parte di alcune persone. La preparazione ai sacramenti sul piano catechetico infatti rappresenta un momento fondamentale di evangelizzazione. Il documento dei Vescovi lo afferma chiaramente. Tuttavia penso che su questo punto dovremmo essere più incisivi nell’affrontare apertamente l’argomento. E non è una questione che riguarda solamente i catechisti, bensì tutta la comunità parrocchiale.
Nel documento dei Vescovi si dice che bisogna: “mettere il popolo credente nelle condizioni di discernere tra fatti di cronaca e segni dei tempi” e come esempio si citano l’omicidio del giudice Rosario Livatino e del Beato Pino Puglisi. Fare memoria di queste o di altre persone uccise come aiuta a tenere vivo un atteggiamento costante e diffuso di lotta alla mafia?
Fare memoria di queste luminose figure non è un dovere morale, ma è una questione di identità, di appartenenza, di radici. La vicenda di Rosario Livatino, il giudice ragazzino, non è slegata dalla mia storia, dalla tua storia, così come il ministero del parroco di Brancaccio non si è fermato il 15 settembre del 1993, ma come direbbe il giudice Falcone continua ancora oggi “sulle gambe di altri uomini”. La storia, il rinnovamento della nostra città, della nostra isola, passa attraverso le nostre scelte. E le scelte di questi martiri hanno plasmato le nostre storie, le nostre coscienze. Se siamo quelli che siamo è grazie anche a loro. Quei martiri non sono fatti di cronaca, ma sono uomini e donne che hanno reso possibile un volto più libero della nostra terra. La fiaccola della testimonianza passa a noi. È un compito comune tenerla accesa, anche quando gli spifferi o le correnti mafiose tenteranno di spegnerla. Riecheggia la celebre frase di 3P “Se ognuno fa qualcosa allora possiamo fare molto”.
Vi sono tra questi martiri per la giustizia figure cui in qualche modo cerca di ispirarsi? Tra i giovani come vengono percepite queste figure? Come ideali irraggiungibili o come persone da cui prendere esempio?
Per ovvie ragioni sono molto legato alla figura di don Pino Puglisi. L’abbiamo vicino casa. È una figura sacerdotale così semplice, feriale, ma così eloquente nel mio cammino di formazione che rimane un costante punto di riferimento. Brillante figura che ho incontrato nel mio percorso formativo è Rosario Livatino. Ho avuto modo di conoscere in maniera approfondita la persona del giudice ragazzino in occasione del percorso per animatori vocazionali dal titolo “Vocazioni e santità: io sono una missione” tenuto dal Centro Regionale per le Vocazioni nell’agosto del 2016 ad Agrigento. Promuovere iniziative del genere a livello parrocchiale o diocesano non può che essere un forte stimolo per i giovani ad incamminarsi e lottare più consapevolmente in un mondo così bello ma ancora soggiogato da logiche oppressive. È chiaro che figure del genere appaiono come giganti, ma forse lo sforzo da compiere è far capire ai giovani che queste figure sono semplici uomini e donne, come noi, ma che hanno creduto fino in fondo ai loro desideri di giustizia, di pace, di libertà. Hanno creduto fino in fondo alle loro idee. Hanno sognato spendendo la loro vita per la realizzazione dei loro sogni, che in fondo sono anche i nostri.