Proseguiamo gli interventi di commento alla lettera dei Vescovi siciliani in occasione del 25° anniversario dell’appello lanciato nella Valle dei templi da San Giovanni Paolo II.Pubblichiamo oggi l’intervista a Maurizio Artale, presidente del Centro Padre Nostro.
Iniziamo col ricordare quel giorno? Dov’era, e che percezione ha avuto di quelle parole?
Lo ricordo con molta precisione: ero in farmacia dove lavoravo come magazziniere. La sera arrivato a casa vidi il telegiornale e ancora oggi ricordo quell’immagine del cerimoniere del Papa che, dopo le Sue prime parole, scandite in un crescendo per tono e accoramento, porta le mani al volto, lasciando subito intendere che quell’intervento non solo non era previsto, ma destò stupore persino in chi, per ruolo, è prossimo al Papa. Quelle frasi finalmente arrivano diritte al cuore della Questione mafia in Sicilia, ma soprattutto diritte al cuore dei mafiosi.
Gli anni successivi sono stati caratterizzati da una offensiva veemente della mafia, ma anche da tanto impegno civile e sociale. A suo giudizio quella denuncia come ha influenzato la società siciliana nei 25 anni trascorsi?
All’inizio ci aspettavamo che quelle parole producessero un cambio di visuale all’interno della Chiesa stessa e quindi nei cattolici cristiani.
Il tessuto relazionale, sociale ed economico della nostra terra è tutt’ora fortemente permeato dalla presenza della mafia. In che misura le parole di Giovanni Paolo II e dei Vescovi possono contribuire a cambiare le cose?
Se le persone, gli imprenditori si sentono supportati da un lato dallo Stato e dall’altro dalla Chiesa, anche se con difficoltà, sapranno fare le scelte giuste. Non è più possibile che la gente che ha bisogno avverta maggiore vicinanza col Sistema mafioso piuttosto che con la sUSSIDIARIETà ECCLESIALE e con i diritti dello Stato.
La pubblicazione della lettera ha consentito di ritornare sul tema dei reali o presunti ritardi con cui la Chiesa siciliana ha affrontato questa piaga. Pensa che questi ritardi ci siano stati e abbiamo inciso così pesantemente?
L’effetto di quei ritardi ha avuto un drammatico apice con l’omicidio di Puglisi. Se la Chiesa tutta, o la maggioranza, avesse saputo fare delle scelte chiare e ispirate al Vangelo, si sarebbero create le condizioni per smantellare quel clima soffocante che la mafia ha imposto a Palermo e alla Sicilia tutta.
Nel documento dei Vescovi si dice che bisogna: “mettere il popolo credente nelle condizioni di discernere tra fatti di cronaca e segni dei tempi” e come esempio si citano l’omicidio del Beato Pino Puglisi. Fare memoria di queste o di altre persone uccise dalla mafia come aiuta a tenere vivo un atteggiamento costante e diffuso di lotta alla mafia?
L’esempio del Beato Giuseppe Puglisi lo dobbiamo leggere dal punto di vista sociale, non disgiunto da quello evangelico, così come è vero che il Vangelo non è un precetto, ma una persona: il Cristo che si è incarnato per essere vicino al suo popolo nella sofferenza e per riscattarlo dalla schiavitù della morte.
Il primo e più importante avamposto di contrasto alla mafia è la parrocchia e il territorio su cui insiste. Nella sua esperienza a Brancaccio quali esperienze o segnali di reale opposizione vede?
La Parrocchia era il primo avamposto di contrasto alla mafia… oggi necessita una formazione specifica dei futuri sacerdoti sul fenomeno mafioso, sulla sua storia e sulle sue ricadute nefaste, sia dal punto di vista spirituale, che relazionale ed economico. Oggi molte parrocchie hanno perso il loro ruolo di presenza “tra le cose”. Più i parroci diventeranno manager e presidenti di associazioni che gestiscono i bisogni sociali, meno conosceranno i loro parrocchiani e i mali che li affliggono.
E con il Centro Padre Nostro che esperienze significative sono state fatte?
Il Centro di Accoglienza Padre Nostro fondato dal Beato Giuseppe Puglisi ha incarnato il mandato del suo fondatore, sostituendosi in molti casi alla Parrocchia stessa. I segnali che cogliamo di questa opposizione alla mafia sono quelli che ci hanno incoraggiato a continuare a mantenere viva l’opera del Beato Giuseppe Puglisi con la nostra presenza e vicinanza al territorio e alle persone che soffrono. Per le scelte di vita più difficili da prendere le persone ormai si rivolgono al Centro di Accoglienza Padre Nostro, così come aveva “pre-annunziato”, in tempi ormai lontani, quel piccolo prete che fece tremare la mafia. Cito solo un esempio. Tempo fa una famiglia prima di decidere di abortire venne al Centro per comunicarcelo. Il Centro ha promesso semplicemente che se avesse deciso di cambiare idea, si sarebbe preso cura del bambino, avrebbe trovato una casa più grande e un lavoro al padre…. oggi Francesco ha 15 anni e tutti i compleanni li festeggia al Centro di Accoglienza Padre Nostro.
I giovani di Brancaccio erano i primi e più vicini interlocutori del Beato Puglisi. Questa lettera è scritta anche pensando a loro. Come si fa a far percepire la vicinanza e l’interesse che la Chiesa ha per loro?
Questa nuova lettera che rilancia l’appello di 25 anni fa, va oltre: chiarisce che non solo chi commette omicidi e stragi è mafioso, ma anche tutti quelli che sanno e non parlano, i loro familiari, gli impiegati, i liberi professionisti, i politici che si sono venduti al dio denaro e che sfruttano la loro posizione per mantenere nella “schiavitù” i più deboli. I testimoni sono credibili, solo se attuano ciò che predicano.
Perché si fa ancora tanta fatica a capire che Chiesa e mafia sono incompatibili?
Perché per più di 100 anni la Chiesa, risentita dalla confisca dei suoi beni avvenuta nel 1860, ci ha fatto credere che la mafia era un problema dello Stato e non della Chiesa. Perché per troppo tempo la Chiesa non ha mai chiesto da dove venissero le ingenti offerte che le pervenivano, perché non sempre il comportamento “specchiato” del Clero, ci ha indotto a comprendere che non si possono servire due padroni. Perché l’unica strada che un cristiano deve percorrere per arrivare al suo Signore è quella lunga e tortuosa, quella scelta da padre Puglisi.
Come giudica il riferimento alla pietà popolare che c’è nella Lettera anche alla luce della sua esperienza a Brancaccio?
La pietà popolare, la drammaturgia liturgica, se bene insegnata ai credenti sono le radici del nostro credere, quelle radici che ci tengono ancorati alla fede dei nostri padri. La pietà popolare era un vivere più semplice e intuitivo della liturgia stessa celebrata dentro le chiese. Molti segni della liturgia non venivano compresi dal popolo, il quale col tempo si creò la sua; purtroppo, con il passare dei decenni questa “liturgia popolare” si è impoverita relegandosi a semplice ritualismo e travisando il vero messaggio, ovvero quello di una fede vissuta per tutti e da tutti. Oggi più che mai bisogna rivivificare la vita della parrocchia e ridare il suo giusto valore e significato alla pietà popolare, perché essa è la chiave d’accesso ai “semplici”, “ai poveri”, a tutti coloro che la nostra “disattenzione” ha svenduto alla mafia e alla criminalità organizzata.