“Nel corso dell’anno - dice il responsabile della Caritas parrocchiale Alfredo Liotta - assistiamo tante famiglie, ma spesso non c’è modo di approfondire un rapporto che rischia di rimanere burocratico. Il pranzo è servito per essere più amici nello spirito missionario che il nostro Vescovo ci ha sempre chiesto”
Il 29 dicembre 2018 nella parrocchia di Sant’Ernesto si è svolto un pranzo promosso dalla Caritas parrocchiale e riservato ad una cinquantina degli assistiti che periodicamente vi si rivolgono per chiedere derrate alimentari, vestiario, medicine o altro.
Abbiamo chiesto ad Alfredo Liotta che ne è il responsabile:
Innanzitutto come è nata questa idea?
Premetto subito che l’idea non ha nulla di particolare ed è simile a tante altre che sono diffuse soprattutto a Natale. Mi preme, invece, dire che essa è nata da due “sollecitazioni”, giunte una nel corso di tutto l’anno e l’altra a metà novembre.
Cominciamo dalla prima. Cosa è accaduto?
Bisogna innanzitutto prendere atto che la crisi economica coinvolge anche chi come noi tenta di aiutare chi ha più bisogno. Nell’ultimo anno sono venute meno in percentuale diverse parte delle risorse stabili su cui facciamo affidamento, prime fra tutte i beni alimentari che provengono dal Banco Alimentare. A questa carenza abbiamo e continuiamo a sopperire con la generosità dei parrocchiani. Per questo in tutti gli incontri che facciamo nel corso dell’anno cerchiamo di avere un atteggiamento il meno burocratico possibile; cerchiamo, ove possibile, di non applicare rigidamente le numerose disposizioni che ci vengono e ci impegniamo ad avere un rapporto più amicale che formale. Quindi l’idea di un momento di convivialità era nell’aria da tempo, ma non avevamo ancora trovato la giusta forma.
E l’altra?
È stato un invito esplicito fatto dal parroco mons. Carmelo Vicari ad evitare di andare in vacanza per tutto il periodo natalizio ed anzi di utilizzare quello per un momento di convivialità e amicizia.
Per questo l’avete chiamato “pranzo dell’amicizia”?
Proprio così. Volevamo che fosse un momento di convivenza prima ancora che un gesto di carità. E devo dire che così è stato perché tutti hanno apprezzato oltre la quantità e la qualità del cibo, soprattutto il clima di fraternità che c’era tra tutti i tavoli.
E chi erano gli invitati?
Dico subito che noi assistiamo nel corso dell’anno, spesso in modo stabile, molte persone e famiglie che non abitano nel quartiere, ma che vengono da fuori, anche da molto lontano. Queste stabiliscono il contatto con il Centro ascolto che poi oltre a smistare le richieste cerca di tenere il rapporto nel corso dell’anno. In alcuni casi esso si protrae anche da molti anni. Queste sono prevalentemente palermitane, ma sempre più spesso si presentano immigrati di origine europea e non, che pur abitando magari nel centro storico, non trovano più lì una adeguata assistenza. E poi, non dimentichiamolo, ci sono sempre i nuovi poveri, le famiglie cioè che per varie vicissitudini si trovano in gravi momentanee difficoltà, a cui non basta dare un sacchetto di spesa.
Quindi c’era un ambiente molto eterogeneo?
Più che eterogeneo c’era la più varia umanità. Anziani, spesso singoli, famiglie con e senza figli, ed anche non italiani. Abbiamo contato anche un certo numero di bambini, che sono stati l’elemento di maggior allegria e attrattiva per tutti.
E dall’altra parte dei tavoli chi c’era?
Innanzitutto non c’era un’altra parte. Eravamo tutti dalla stessa parte, organizzatori e invitati. Tutti seduti allo stesso lunghissimo tavolo e tutti a servire e a mangiare. Il pranzo è stato portato da fuori perché in parrocchia non c’è attrezzatura idonea ed anche il ristoratore è stato particolarmente generoso tanto che molti hanno potuto portare a casa con gli avanzi il necessario per la cena.
Che giudizio si può trarre adesso, a cose fatte?
Siamo riusciti a creare un clima di familiarità che è stato compreso e apprezzato da tutti. Concludo ripetendo quanto mi sono sentito di dire all’inizio del pranzo. Noi c. d. organizzatori abbiamo due privilegi: che dobbiamo tra noi compartecipare ai costi di tutta l’organizzazione e poi che dobbiamo servire. Tutto ciò ha un grande valore educativo perché evita di appiattirci sulla qualità del servizio che dobbiamo rendere. Certo noi siamo operatori della Caritas, e quindi diamo servizi, ma come ha detto giustamente in nostro Vescovo in occasione della grande assemblea della Caritas diocesana di novembre, non dobbiamo concepirci come operatori, anzi credo abbia detto nell’occasione che non vuol più sentire ripetere la parola operatori. Lui ha detto che dobbiamo concepirci come missionari, tra coloro che più hanno bisogno, non solo di sostegni materiali, ma anche di Gesù Cristo e della Chiesa. Credo che tutto ciò sia stato detto e compreso chiaramente e ci servirà per proseguire la “nostra missione”.