La Caritas diocesana in questo tempo di Quaresima, unitamente agli uffici pastorali della Catechesi, della Liturgia e della Pastorale giovanile, ha avviato il progetto “TU ci inviti alla tua Mensa”, una iniziativa finalizzata alla raccolta di fondi necessari per la ristrutturazione della Locanda del Samaritano.
La Locanda del Samaritano, che si trova in Vicolo san Carlo, in Piazza Rivoluzione a Palermo, fornisce un pasto caldo alle persone senza dimora o in situazione di grave emarginazione, seguite dal Centro di Ascolto Caritas, offrendo un momento di accoglienza e di ascolto finalizzato a orientarle verso la rete dei servizi presenti sul territorio.
La Locanda opera da tempo a Palermo ed offre tre pasti caldi al giorno a circa 110 persone e accogliendo 25 persone per notte; ha bisogno di adeguamenti e ammodernamenti, per garantire agli ospiti un sufficiente grado di accoglienza nel periodo che vi soggiornano.
Abbiamo chiesto al direttore della Caritas palermitana Fra Pino Noto di illustraci l’iniziativa.
Chi sono le persone che accogliete alla Locanda?
Quanti bussano alla nostra porta, cioè il prossimo nelle sue forme più variegate: palermitani, italiani, stranieri e più di recente abbiamo dato un posto letto e da mangiare a 5 padri separati, che dopo la fine del matrimonio non sono in grado di mantenersi autonomamente, dovendo prioritariamente passare gli alimenti alla moglie e ai figli, che sono rimasti nell’unica dimora.
Visto il grande bisogno che c’è in città, come selezionate le persone da accogliere?
Prima di essere accolte vengono incontrate dagli operatori del “Centro Ascolto”, che cerca di individuare l’interezza e la complessità del bisogno di cui sono portatori; poi incrociando la nostra disponibilità con il loro bisogno cerchiamo di trovare la soluzione più soddisfacente, che non sempre coincide con l’accoglienza nella Locanda.
Che tipo di richieste emerge?
Quasi sempre quello più immediato è di carattere alimentare, o comunque economico: pagare bollette, acquistare medicinali, sottoporsi a visite specialistiche, sostenere esami clinici costosi, quando non si tratta di aiutarli per farsi curare fuori dalla Sicilia. Ma questo è solo ciò che emerge dal primo incontro.
E dopo?
Più che dopo, direi contemporaneamente emerge il più grande bisogno: essere ascoltati e compresi da un’altra persona. Il dato più drammatico con cui facciamo i conti quotidianamente è la solitudine. Mi spiego con un esempio: se viene una giovane mamma bisognosa del latte per il suo neonato, quasi sempre ha alle spalle non solo un matrimonio andato a male, ma una struttura familiare che non esiste più. Quando i vincoli familiari si allentano o si sciolgono come neve al sole, se non c’è una rete amicale di sostegno, si finisce nella depressione e nella solitudine. Questi mali sono molti più diffusi di quanto si pensi e molti più difficili da aggredire. Infondo dare un sacchetto di alimenti è più semplice che accompagnare in un percorso di reinserimento sociale chi è stato espulso. Faccio come esempio i tanti giovani incappati per la prima volta nelle maglie della giustizia e nell’esperienza del carcere: a questi occorre dare subito una prospettiva e una speranza diversa, altrimenti c’è pronta ad accoglierli solo una “grande famiglia”, cioè la mafia.
Come vede dal suo punto di osservazione la situazione della povertà a Palermo?
Da alcuni anni è sempre in aumento il numero di uomini e donne che bussano alle porte della Caritas diocesana per trovare un aiuto in grado di alleviare la loro condizione di povertà e di indigenza e per guardare avanti con più speranza. Solo nell’ultimo anno si sono rivolte a noi oltre 1.500 persone. La maggior parte è costituita da nuclei familiari con figli minori a carico, famiglie dove è venuto meno l'unico stipendio o dove è cessata anche la cassa integrazione. Chiedono alla Caritas un contributo per pagare le utenze domestiche oppure, attraverso il nostro intervento in accordo con i servizi sociali dei comuni, di evitare l'interruzione della fornitura di acqua, metano, gas ed energia elettrica.
Ma torniamo all’esperienza della Locanda. Come funziona?
In modo semplice: chi viene accolto per i pasti, ha certamente un tetto sotto cui dormire e quindi il rapporto con i nostri operatori è più episodico. Chi invece vi rimane a dormire viene preso in carico per cercare di affrontare tutta la complessità del suo problema. A tutti anticipiamo che la soluzione che offriamo è temporanea e che devono nel medio periodo trovare, magari insieme a noi, una soluzione più stabile. Il caso dei genitori separati è il più emblematico. D’altra parte questa non è l’unica struttura di accoglienza in città e poi noi lavoriamo molto in contatto con le parrocchie.
Ma a proposito di parrocchie. Qualcuno potrebbe sostenere che questa raccolta di fondi sottrae risorse economiche alle parrocchie, ove il bisogno non è meno urgente. Forse, storpiando uno slogan molto diffuso in questo periodo, si potrebbe dire: prima le parrocchie e poi la Diocesi?
Innanzitutto bisogna precisare che la Caritas diocesana non si pone in alternativa a quanto si fa già nelle parrocchie. Noi cerchiamo di rispondere ai bisogni in un orizzonte più ampio che è quello della città e da noi vengono quasi sempre persone segnalate dalle parrocchie. Quanto allo slogan cui fa riferimento c’è da dire almeno una cosa.
Quale?
Un cittadino italiano e un amministratore pubblico di fronte al venir meno di risorse utili per soddisfare il continuo bisogno di richieste, deve necessariamente individuare dei criteri il più possibili oggettivi. Si potrebbe, lo dico ovviamente per scherzare, dare la preferenza agli alti piuttosto che ai bassi, ai giovani piuttosto che ai meno giovani, si potrebbe utilizzare il sorteggio, ecc. Noi cristiani invece abbiamo un altro criterio con cui incontrare l’altro, quello indicato nel Vangelo, che si riassume nella parola prossimo.
Ci spieghi meglio.
Il prossimo è colui che incontriamo sulla nostra strada, non colui che abbiamo deciso preventivamente che è meritevole di essere aiutato. Nella famosa parabola del buon samaritano, i primi due protagonisti operarono una scelta, stabilendo che il malcapitato non era meritevole delle loro attenzioni. Il terzo accettò che quella persona fosse in quel momento “il suo prossimo”. Ecco perché lo Stato, l’Amministrazione, i politici, i governati sono liberi di stabilire che una preferenza va data agli italiani, ma noi cristiani non siamo chiamati a fare selezioni preventive; la carità, che è cosa diversa dalla solidarietà, chiede innanzitutto la conversione di noi che la facciamo, prima che cambiamenti in chi la riceve.
Dunque, lei condivide il gesto di quel parroco del nord Italia che ha cercato di restituire una somma di danaro ricevuta per aiutare i poveri della parrocchia, purché venissero anteposti gli italiani agli stranieri?
Non so dire quale comportamento specifico avrei assunto in quella situazione. Posso dire che in quella vicenda vi sono due elementi da tenere presente per noi cristiani.
Quali?
Il primo l’ho già detto: la carità non può essere selettiva. Secondo: la carità non può porre condizioni a chi ci chiede aiuto.
Che vuol dire in concreto?
Vuol dire che spesso noi tutti, magari inconsciamente, abbiamo uno stereotipo di “povero” che a nostro avviso è meritevole del nostro aiuto. Lo vorremmo con i vestiti laceri, e bisognoso di un tozzo di pane, non abilitato ad aspirare ad un tenore di vita simile al nostro. Non vorremmo che avesse il telefonino, che fumasse, che vestisse decorosamente, che avesse il corpo ben curato, che non sprecasse “i nostri soldi” in alcool, droga, o giochi di carte. Insomma siamo noi a stabilire chi è meritevole del nostro aiuto. Vorrei raccontare a tal proposito un avvenimento accaduto tanti anni fa nella vita di don Giussani e riportato nel libro che ne ha ricostruito la sua vicenda umana.
Prego.
Un giorno alcuni ragazzi che andavano a fare caritativa incontrarono una donna che conduceva un’esistenza ai limiti dell’indigenza. Per aiutarla, le diedero dei soldi. Senonché, di lì a poco, la videro tutta imbellettata e arguirono che avesse speso i soldi ricevuti per comprare dei cosmetici, invece di generi di prima necessità. Indignati, lo fecero presente a don Giussani, il quale, al contrario, li rimproverò, facendo loro presente che quella donna, grazie a un po’ di rossetto, forse si era sentita nuovamente bella come da tempo non si sentiva. La carità, per sua natura, non può che essere gratuita e priva di condizioni. Don Giussani la sintetizzava in questa frase: la carità è: «Dono di sé commosso». Io la uso spesso per far comprendere la distinzione fra solidarietà e carità.
Scusi, ma secondo questa logica allora basta dare qualcosa al povero che ce lo chiede ed è tutto risolto. In altri termini la carità implica l’educazione di chi la riceve?
In questo variegato e complesso mondo del bisogno non vi è dubbio che esistono, come in ogni ambito della vita, anche coloro che approfittano della loro condizione per lucrare vantaggi, anche a danno di altri. Questo fenomeno va preso in adeguata considerazione e così in effetti facciamo un po’ tutti. Per esempio di fronte al caso di coloro che girano per le parrocchie per chiedere alimenti, che poi rivendono furtivamente, stiamo mettendo a punto un sistema di monitoraggio per evitare che proliferino i professionisti dell’”accattonaggio”.
E voi alla Caritas come vi comportate?
Alla Caritas per esempio evitiamo di dare soldi a chi esibisce bollette da pagare ed invece provvediamo noi stessi al pagamento. Tutto ciò è necessario e doveroso, ma non può sfociare, come ho detto prima, nella nostra pretesa di stabilire criteri e modalità. La nostra bussola è la lettera ai Corinzi dove della carità si dice: «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine».
Quindi bisogna concludere che la lotta alla povertà non può essere vinta?
Nella storia dell’uomo ci sono stati tentativi di eliminazione della povertà. Qualche regime, penso all’Unione Sovietica, c’è riuscito a prezzo però della libertà. Ma la prospettiva offerta dal Vangelo è ben diversa. Nel Vangelo di Marco Gesù dice la famosa frase: «I poveri li avrete sempre con voi». Ma attenzione nel linguaggio cristiano i poveri non sono una categoria sociologica, cioè non sono quelli che non hanno sufficienti beni di sostentamento. Come ha opportunamente spiegato il nostro Arcivescovo Corrado Lorefice al Convegno della Caritas diocesana: “La Compagnia del Vangelo per una Chiesa povera per i poveri”, i poveri sono “un luogo teologico e nella loro concretezza dobbiamo avere un approccio di amore e accoglienza”. Quindi, se il punto di partenza è la povertà intesa come categoria teologica, cioè come percorso necessario e urgente per comprendere la novità del Vangelo bisogna saperlo riscoprire nella storia che viviamo. Questa povertà è popolata dal volto degli ultimi, dei piccoli, dei fragili, di coloro che non hanno voce. Sono costoro a fare la nostra storia, la nostra obbedienza e per questo dobbiamo ascoltare i poveri e rifiutare ogni atteggiamento di utilizzo dei poveri, ogni uso della carità ‘di potere’.
Finiamo tornando al progetto “TU ci inviti alla tua Mensa”. Come state procedendo?
Abbiamo prodotto una locandina di sensibilizzazione che abbiamo consegnato personalmente ai parroci e alle loro comunità parrocchiali. Con la stessa impostazione grafica è stata realizzata una “tovaglietta – segna posto”. In tal modo chiunque lo vorrà potrà promuovere una “cena di solidarietà” presso i locali della parrocchia o in altri locali, oppure promuovere un altro gesto di solidarietà e di raccolta fondi il cui ricavato andrà alla Caritas diocesana.