(11 maggio 2013) – Viviamo in un’epoca che ─ nell’immaginario collettivo e nel fondo delle coscienze ─ ha la sua icona principale nella Rivoluzione francese, allorché l’ideale della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità è stato gridato ai quattro venti, mentre si affermava definitivamente una radicale svolta storica (culturale e a suo modo religiosa, ancor prima che politica): l’evento e l’avvento della secolarizzazione. L’ideale della fraternità e dell’uguaglianza tra gli uomini si è perciò accompagnato, lungo tutta la tarda modernità – nella quale ancora stiamo vivendo – con la rivendicazione della libertà, che proprio nella prospettiva della secolarizzazione è stata intesa anche e soprattutto come affrancamento dalle convinzioni religiose e come autonomia dalle prescrizioni religiose: in definitiva, come autonomia dalle immagini che di Dio le religioni per secoli, prima, avevano proposto, ciascuna secondo forme ed espressioni peculiari, ipotecando talvolta il volto di Dio con i cangianti riflessi del volto degli uomini e, di conseguenza, dimenticando che dovrebbero essere gli uomini ad assomigliare a Dio e non viceversa.
Forse non è arbitrario pensare che la secolarizzazione moderna e contemporanea sia l’esito “saturo” di quello che – ancor prima e più che un perdurante stato di crociata o di jihad – è stato un plurisecolare conflitto di interpretazioni, di concezioni, di visioni riguardo a Dio.
È forse avvenuto su scala globale ciò che racconta un apologo buddhista a proposito di un marajà che – un giorno – radunò presso la sua corte un gran numero di ciechi nati e fece toccare loro, in diversi punti del suo corpo, un enorme elefante, dichiarando nel frattempo, solennemente, che “un elefante è così”. Ci fu chi toccò la coda dell’elefante, ci fu chi ne toccò la testa, o l’orecchio, o le zanne, o la proboscide. Alla fine il marajà chiese ai ciechi di dirgli come fosse l’elefante che avevano toccato. E tra la confusione, presto degenerata in parapiglia, ciascuno dei ciechi disse che l’elefante è come una scopa, o come un muro, o come un grande ventaglio, o come la barra di un aratro, o come una lunga pompa. L’elefante è così, non è così…
La modernità occidentale, secolarizzandosi, si è voluta come immunizzare da questa confusione, scegliendo la via dell’agnosticismo e oggi, in un orizzonte culturale ormai ipotecato dal relativismo, il confronto tra le religioni è considerato dagli osservatori alla stregua di una disputa tra ciechi nati.
Nondimeno le religioni non sono scomparse dall’Occidente post-moderno: esse “rimangono” e, anzi, come ci dicono gli studiosi che si dedicano a questi temi, “ritornano”. Anche se, reduci dal crogiolo “secolare”, non hanno più i connotati dottrinali, gli assetti istituzionali, le spinte ideali che aveva prima.
Tra i fattori costitutivi dell’esperienza religiosa, oggi, in età post-secolare (come diciamo dacché Habermas ha formulato questo termine), sembra mancare soprattutto la compagnia che la ragione umana prima garantiva alla fede in Dio, dando luogo a tradizioni teologiche e filosofiche che hanno di fatto disegnato l’identità culturale dell’Occidente stesso. Il convegno sul “filosofare per le religioni nell’età post-secolare” ( programma ), che in questi giorni si tiene presso la Facoltà Teologica di Sicilia, a Palermo, si propone, per l’appunto, di recuperare i tratti peculiari di quella complessa identità, sorta dal confronto e non dallo scontro fra i tre monoteismi che hanno avuto la loro culla nel Mediterraneo, per verificare la possibilità di trovare per essa nuovi sviluppi che mettano al riparo le future generazioni ─ e noi stessi ─ dagli eccessi fondamentalistici che esitano dall’innaturale isolatezza in cui la fede per un verso e la ragione per l’altro rischiano oggi di rimanere relegate, allorché finiscono per separarsi ed esautorarsi a vicenda.