(12 marzo 2012) - Non si trova facilmente, tra le opere scritte da eruditi e aristocratici nel Sette-Ottocento per narrare il loro viaggio in Sicilia, la descrizione degli eventi che a Caltagirone impegnano in modo corale la città durante la festa con cui il 24-25 luglio si omaggia san Giacomo apostolo, patrono della città e della diocesi calatina. È una lacuna non banale, perché questo evento ha radici antiche che riportano a una decisione presa dal conte Ruggero il Normanno dopo la vittoria sui saraceni del 25 luglio 1090. Ed è, questa lacuna letteraria, cosa strana anche perché si tratta di un evento che si replica ormai da oltre quattro secoli con grande sfarzo e cura dei particolari.
Nelle pur minuziose didascalie su cose e vicende siciliane non se ne fa granché parola, così in Johann Wolfgang Goethe come in Federico Münter o in Patrick Brydone. Nel periodo del “Grand Tour” i collegamenti viari rendono disagevole inoltrarsi nelle zone interne isolane e scoprirne le molte tracce architettoniche d’antica costruzione. Si sarebbe potuto osservare che oltre alle note e suggestive Girgenti, Segesta e Selinunte ci sono, per trascrivere solo alcuni nomi di città venuti a mente, Caltagirone con le sue maioliche colorate e resistenti alle avversità telluriche di cui il luogo ha grave memoria, Morgantina con le sue millenarie pietre, Enna l’ombelico di Sicilia con il suo carico di classicità. Non a caso quest’ultima è ricordata nel viaggio goethiano pure per via delle strade diventate incomprensibilmente pesanti e impraticabili dopo una piovosa giornata di fine aprile 1787, malgrado l’evidente e recente lavoro fatto per lastricarle, come aveva annotato il letterato tedesco con stupore quando vi si reca da Caltanissetta. Il problema rimane sostanzialmente irrisolto quando l’unificazione nazionale si compie e raggiunge la Sicilia con l’impresa dei Mille.
Alla Sicilia, quindi, ancora a Risorgimento (quasi) compiuto ci si avvicina percorrendone il perimetro ed entrando raramente là dove il sole infuoca la fatica degli uomini e ne tempra le domande e la comune devozione verso il Cielo. Ce lo testimonia Carlo Giachery, professore nell’Università di Palermo e ispettore di ponti e strade, in una Memoria descrittiva della Sicilia e de’ suoi mezzi di comunicazione sino al 1860 pubblicata nel 1861 e anticipata anche ad Agostino Depretis, che in Sicilia si era recato soprattutto per cercare punti di mediazione tra Cavour e Garibaldi durante l’avanzata vittoriosa dei Mille. Depretis era stato primo ministro nei governi della sinistra storica nell’Italia unita e in due occasioni ministro dei Lavori pubblici e quest’ultimo aspetto ci segnala, tra l’altro, quanto sia approfondita la conoscenza dei problemi viari siciliani da parte statale.
Oggi molte cose sono cambiate, anche se non sono pochi gli impedimenti viari che rendono lontane le città poste alle tre estremità di un’isola chiamata appunto “Trinacria”. In questa complessiva distanza tra le città si trova una tra le ragioni storiche principali di un’appartenenza ideale mai arrivata a vera e profonda comunione tra chi ne abita e vive il corredo di meraviglie naturali e culturali. Certo, il tempo delle litigiosità cittadine sei-settecentesche è lontano, ed è bene che rimanga soltanto motivo di studio o di colorato folklore campanilistico. Le invidie tra le città, determinate dal maggiore o minore favore che la corte vicereale arrecava all’una o all’altra di esse, sono un altro dei motivi determinanti il debole senso del bene comune siciliano. Ne sopravvivono memorie negli scritti istituzionali di quei secoli e se ne possono inferire paragoni politici che non lasciano molto spazio a discussioni. Mentre in America le colonie si univano per scrivere e affermare con orgoglio di fronte al mondo “We the people” e con questo spirito proclamare nel 1776 il diritto all’indipendenza, in Sicilia i giureconsulti e rappresentanti di città e ordini discutevano con fervore di consuetudini, formalità e presunte acquisizioni di vantaggi sociali e fiscali.
A Caltagirone, però, qualcosa è accaduto se le tradizioni della festa cittadina hanno plasmato il costume di tutta la comunità e sono diventate occasione di una memoria positiva e costruttiva che si apre all’esperienza personale del turista. Qui si giunge in forza di molteplici presentimenti di bellezza di cui si hanno notizie dettagliate (la scala illuminata, le ceramiche, il barocco dei palazzi notabili, per esempio) e mai per fortuita coincidenza. Alle tre del pomeriggio del 25 luglio, giorno della festa di san Giacomo e uno dei due consecutivi dedicati al fasto del corteo storico e ai luccichii notturni della scala illuminata, si può facilmente trovare il turista giapponese che attraversa la città da un capo all’altro e, percorsa la via Luigi Sturzo, arriva fino alla chiesa di san Giorgio e al vicino belvedere per fare quegli altri scatti fotografici da portare con sé a casa, nel lontano Oriente, per rinnovare altre volte la bellezza vista girovagando in Sicilia.
La festa di san Giacomo è una circostanza indicativa del valore attribuito dai calatini alla loro storia. Vi si intravede, infatti, il senso di un’unità raggiunta per il tramite di un’esperienza religiosa e devozionale radicata nel popolo e posta al centro di un evento atteso e preparato con cura estrema. In essa permane qualcosa della tempra antica di un popolo che non ha smesso di costruire il proprio ponte verso il cielo, anche adesso che molte delle consolidate certezze tramandate di padre in figlio sono poste in dubbio. Nelle sue diverse articolazioni e nell’annesso corteo senatorio civico si rinvengono i dettagli più profondi di una festa che non offre appena motivi di folklore. Ai piedi della scala che porta alla Chiesa di Santa Maria del Monte c’è la Chiesa di san Giuseppe, dove si trovano presepi posti accanto a occasioni semplici di beneficienza missionaria da poter vivere negli stessi momenti in cui i 142 gradini prendono nuova vita attraverso il colore e il disegno dei coppi accesi dai presenti per dare forma alla scala illuminata. Cittadini di Caltagirone e forestieri arrivati per turismo cooperano insieme, gli uni vicini agli altri, per accendere le lumiere alimentate a olio dei coppi policromi con rametti distribuiti a tutti e che passano di coppo in coppo.
Accade così da secoli, secondo le linee di una tradizione che ogni anno si ripete il 24-25 luglio e il 14-15 agosto, quando la scala è illuminata in onore di Maria Santissima del Ponte. A ogni giorno corrisponde un nuovo disegno, che è ispirato a temi iconografici cittadini o patronali capaci di rinnovare il fascino e le suggestioni di uno spettacolo unico al mondo. Lungo le ore di queste notti ci si trova dentro un’atmosfera incantata. I bagliori dei flash accompagnano i chiarori tremolanti che dai coppi riverberano dando luce e calore alle pareti di palazzi antichi ricchi di storie. Tra questi è il Palazzo Reburdone, noto pure come Palazzo Ceramico, che è sede del Museo della ceramica contemporanea e della Mostra permanente dei pupi siciliani. Qui si possono vedere le molteplici sfaccettature dell’arte ceramica calatina e la fierezza di pupi messi in piedi per raffigurarne la postura e gli abiti d’un tempo.