Commedia dell’arte e maschere popolari: con Mimmo Cuticchio riprendono vita i pupi di farsa

 

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(15 febbraio 2016) – È da poco trascorso il periodo di Carnevale, fatto di scherzi, di divertimento e di spensieratezza: “carnem levare”, questo il senso tradizionale di un periodo dell’anno che ha il suo culmine nel martedì grasso ed anticipa la Quaresima.

Per tali ragioni, che affondano le radici nella storia più remota, durante il Carnevale si tende a trasformare la realtà della vita quotidiana in maniera comica o ironica per trascorrere in allegria i giorni che anticipano la Santa Pasqua, e durante i quali, fino a qualche tempo fa, si faceva un bilancio dell’anno appena trascorso, denunciando gli errori e le manchevolezze dei giorni andati che servivano da spunto per i buoni propositi per il nuovo anno. Una sorta di Capodanno, quindi, e non è forse un caso che nel medesimo periodo si festeggia, dalla parte opposta del mondo, proprio il Capodanno cinese.

Questa antica tradizione carnascialesca è stata proprio il tema dello spettacolo che ha avuto come oggetto “Il testamento del nonno e della nonna”, facente parte della rassegna “Un Carnevale all’opera dei Pupi”.

Questa serie di eventi è stata ideata dall’infaticabile grande Maestro Mimmo Cuticchio che l’ha inaugurata nei giorni 6 e 7 febbraio sulle tavole del palcoscenico dello storico Teatro di via Bara all’Olivella 95 di Palermo, con l’opera dal titolo originale “U testamento ru nannu e da nanna”, momento simbolico della fine del Carnevale, e quindi dell’anno vecchio, e della nascita di quello nuovo, carico di speranza e di buoni auspici.

Tutta l’opera, fatta di gustosissimi sketch, narrazioni e riflessioni, ruota quindi attorno alla presenza dei nanni, tipici pupazzi che a fine anno vanno bruciati come stimolo apotropaico per cancellare tutto il male e le negatività vissute, ma affinché questo gesto possa avere un seguito ed un risvolto positivo per i giorni che verranno sarà necessario, prima del rogo, leggere u tistamentu, ossia la lista del passato cattivo da evitare e del nuovo buono da accogliere.

È questa una grande novità dell’originale sceneggiatura di Cuticchio che non smette mai di sorprendere con la sua poliedrica arte: questa volta vengono messi da parte i poemi cavallereschi che vedono i classici paladini armati di elmo e corazza che lottano per il re e per la bella Angelica, e rimangono a riposo anche i paladini stessi con le loro scintillanti armature, fatte di metallo, velluti e piume.

I protagonisti stavolta sono i “pupi di farsa”, marionette lignee che tradizionalmente sono adibiti a brevi siparietti comici introduttivi o conclusivi, lasciando sempre il teatro alle battaglie ed alle vicende amorose di Orlando e Rinaldo.

I pupi di farsa divengono finalmente i padroni della scena, ed hanno il volto, il nome e le fattezze delle più classiche maschere che hanno costituito le nostre radici: Nofrio e Virticchio sono al centro di ogni gags e con loro Scricchianespula, u Baruni, Lisa e, Tistuzza che, nella qualità di comprimari, tessono il racconto che porterà finalmente al fatidico “testamento”.

Ad aprire la scena è stato il “pupo fumatore” che ricordando come sia importante mantenere ferme le nostre radici, rammenta che è però necessario aggiornarsi e restare al passo con i tempi.

I personaggi tipici della nostra cultura popolare entrano in scena e chiedono il permesso di esprimersi per la prima volta in uno spazio tutto loro al “principale”, ossia proprio al loro marionettista e creatore, Mimmo Cuticchio, che della tradizione artistica di suo papà Giacomo ne ha fatto una ragione di vita, raggiungendo i livelli più alti di popolarità e di successo che oltrepassano di certo i confini del nostro territorio: giova in questa sede ricordare che l’UNESCO ha riconosciuto l’Opera dei pupi patrimonio delle tradizioni orali e immateriali dell’umanità.

Con il consenso del “principale” vengono ricordati i tempi in cui, quando ancora la televisione non esisteva, lo strumento principale per il popolo per confrontarsi e per condividere i fatti di cronaca e di attualità era proprio l’incontro serale presso i teatrini del centro, all’interno dei quali, con il pretesto della messa in scena di un episodio cavalleresco, si discuteva e si imparava, fino a quando la distinzione fra classi sociali si fece sempre più netta e la nobiltà si distanziava dai poveri in modo marcato e l’uso dell’italiano quasi sostituiva l’uso del dialetto nativo.

E proprio quest’ultimo è stato il linguaggio prevalentemente scelto per la narrazione dei fatti, un vernacolo in rima baciata e sapientemente calibrato dal puparo-sceneggiatore che, dando voce e vita a tutti i personaggi, è stato anche abile narratore.

“I tempi cambiano compare… ma a me sembra che non cambia proprio niente”, è questo l’incipit che Nofrio e Virticchio condividono al loro ritorno sul boccascena, tra gli applausi del pubblico e le risate dei tanti bimbi presenti che hanno interagito con questi novelli ma vecchi personaggi animati da Mimmo Cuticchio e dal figlio Giacomo. L’opera è una mirabile farsa costruita sulla memoria e sui ricordi del celebre cuntastorie che ha affidato alla fisarmonica di Totò Pitti la coinvolgente colonna sonora eseguita dal vivo ai piedi del palcoscenico.

Il primo quadro ha come sfondo una tela dipinta raffigurante piazza Rivoluzione che, appropriatamente stilizzata, presenta l’immancabile statua del Genio di Palermo: su questo scenario Nofrio e Virticchio hanno raccontato tre esilaranti episodi che ruoteranno attorno ad un cane affamato che ruba una fetta di fegato, un bambino famelico e un finto sordomuto, espediente di sopravvivenza invano tentato per guadagnare qualche immeritata elemosina. Nel frattempo Zu’Nenè, ossia il cuoco, prepara tutto per il rito del testamento durante il quale tutti gli invitati prima parlano delle cose che non vanno e poi dicono cosa desiderano.

Si apre così il secondo quadro, dominato dal blu del mare del porto palermitano e dal celeste del cielo dove si profila la sagoma di Monte Pellegrino, che diviene il panorama della casa dei “nanni”.

“È vero che dalle finestre e dai balcuni, si buttano cose vecchie come i cudduruni, ma guardando tutte le negghie, mi pare a mia ca’ niuncanciò niente”: con un po’ di amarezza mista ad ironia i pupi fanno un bilancio dell’ultimo testamento e dell’anno appena finito, sperando che bruciando i nanni e gettando via le cose inutili venga un futuro migliore, più giusto e meno povero, grazie ad un fuoco purificatore e rigeneratore.

Quindi questa data assume il ruolo di svolta oggi per i pupi come ieri per i nostri padri e come per lo stesso Mimmo Cuticchio che ricorda personalmente questo annuale appuntamento come il più atteso della sua infanzia.

“Se volete le cose cambiare, al giorno 6 dovete pensare”, ed ecco che è arrivato finalmente il giorno tanto atteso e i nonni, simbolo ormai del passato da rinnovare e da migliorare, danno il via al testamento incitando tutti i convenuti a parlare, utilizzando un mezzo potentissimo quale è la lingua che “non ha ossa ma rompe le ossa”, prima che venga l’era del “televisuri che ci occupa tutti l’uri”, caratteristica proprio dei nostri tempi, in cui Nofrio, Virticchio, i nonni e i pupi tutti celebrano la memoria delle antiche balate, delle fontane e degli storici palazzi, rimpiangendo i “tempi dei pupi”, tempi in cui in nome della cavalleria si rideva e si piangeva ma tempi in cui vivendo le gesta dei paladini si imparava la storia, la geografia l’arte e la matematica in maniera ineguagliata.

Termina la lettura del testamento e dopo aver ripercorso nella storia di Palermo e della Sicilia, l’evoluzione dell’umanità tutta, passato e presente si congiungono creando un varco verso il futuro che dovrà trasformare il rimpianto, la nostalgia e l’amarezza in propositività ed allegria per un caloroso augurio per il nuovo anno, e saranno ancora una volta i nonni ad ammonire Nofrio e Virticchio ricordando loro di cercare con attenzione gli errori e di scrutare con buon senso nella propria coscienza: “insomma noi siamo i vecchi e ci dovete bruciare, ma tornando alle case cercate il vecchiume che dovete buttare”.

Siamo al terzo quadro, giunge il tramonto e i due inseparabili amici vanno a dormire in una topaia affittata dal barone, nella quale trascorreranno una notte fatta di incubi a causa della loro ubriachezza; Nofriosimpaticamente ricorderà come “quel quinto litro di vino proprio non ci voleva”.

Con l’ultima scena ritorna il sole ed alle falde di Monte Pellegrino assistiamo ad una comica battaglia tra Virticchio ed un gigante che, sebbene forte ed armato, non potrà che soccombere all’agilità ed all’astuzia del piccolo Virticchio. Termina così questa grande opera teatrale che fonde tradizione ed innovazione, saggezza e cultura, rimpianto e speranza, passato e futuro; una perla per ridere e riflettere su noi stessi.

La rassegna continuerà per tutti i fine settimana di febbraio presso il Teatro di via Bara all’Olivella con “L’albero incantato della maga Sibilla”, “Ricciardetto si finge Bradamante per amore di Fiordispina” e “Ruggiero salva Ricciardetto dal rogo”.


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(ph. Carlo Guidotti)


 

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