(9 febbraio 2014) – Verrebbe da dire “succede sempre così”. Ma è più giusto iniziare dicendo “spesso” nel nostro attraversare giorni, ore, minuti, decenni vediamo accadere questo fenomeno: l’uomo vive credendo che tutto possa continuare senza grossi cambiamenti, che ognuno possa tornare a casa ogni giorno, ogni sera con i propri infingimenti, con i propri schemi. Poi succede qualcosa ed il teatro della vita a cui siamo abituati si sgretola, si mostra vuoto. E torniamo alla ricerca.
Ed è questo vuoto, questa vacuità di senso, che affrontano i protagonisti dei due atti unici messi in scena al Teatro Savio di Palermo, per la regia di Giovanni Sposito, l’8 e il 9 febbraio.
Il primo è «L’uomo dal fiore in bocca», un testo di Luigi Pirandello del 1923. Lo scrittore agrigentino stava per arrivare all’apice della sua fortuna, compagnie teatrali di tutta Italia rappresentavano le sue opere, ma lui non tradiva la sua radice, l’indagine del pensiero nel campo della vita umana. Così il protagonista, interpretato da Antonio Silvia con eleganza ma non senza qualche calo di tensione, si mostra al pubblico in un momento cruciale: ha scoperto d’avere un epitelioma, un tumore maligno, che gli concede non più di dieci mesi.
“Le domando se le case di Messina, sapendo del terremoto che di lì a poco le avrebbe sconquassate, avrebbero potuto starsene tranquille sotto la luna, obbedienti al piano regolatore della commissione edilizia municipale. Case, perdio, di pietra e travi, se ne sarebbero scappate!”. E qui la trovata scenica dei palazzi che sembrano quasi cadere alle spalle dell’attore. E anche lui, come tutti noi, davanti a un male che gli conta i giorni se ne scapperebbe dalla vita. “Perché, lei capisce, mi si fa un momento di vuoto dentro… lei capisce, posso anche ammazzare come niente tutta la vita in uno che non conosco” o, forse, più probabilmente la sua. Finché non lo attraversa un ricordo, un’immagine, un sapore che vince la sua paura. “Ma ci sono, di questi giorni, certe buone albicocche…”. Basta anche solo quell’accenno di gusto, di “gusto della vita” nonostante i minuti che scorrono, a lasciarlo attaccato ad essa.
Anche «Il Ciravolo», atto unico di Filippo La Porta (autore siciliano vivente), presenta un personaggio alle prese con una ricerca di senso ed anche la sua ricerca ha il proprio punto di partenza in alcuni eventi che sconvolgono la realtà che lo circonda. Il “ciravolo” è un sedicente mago, un indovino fanfarone, che inganna i contadini in virtù di poteri conferitigli nientedimenoché dal Beato Paolo. In una Sicilia antica di poco più di un cinquantennio fa, quando gli agricoltori credevano a queste arti divinatorie e così mischiavano ai loro canti d’attesa della mietitura, “canto degli uomini incerti”, le pose e le fatture del “ciravolo”.
Ma i suoi infingimenti devono progressivamente scontrarsi con la realtà: dapprima quella di “uomini certi” che a differenza degli altri offrono ospitalità al sedicente indovino non per paura dei suoi malefici, ma perché “sappiamo in che consiste nostra vita”, in obbedienza e compimento della volontà di Dio. Poi ci pensa la storia a sconvolgere la realtà del “ciravolo”: lo sbarco degli americani, per i quali egli diventa il clown e la guida tra le trazzere siciliane. Diventa un uomo di cui la gente non ha paura, di cui la gente ride. Diventa un uomo da nulla, di sichinniènza, termine con cui l’autore divertendo ripropone gli impasti linguistici siculo-americani, in questo caso è l’addomesticamento siciliano del “second hands” americano. E infine arriva anche qui la morte, patita da un siciliano che si protende per difendere il territorio dall’avanzata degli alleati, patita anche dall’ormai non più “ciravolo”, che rimane ad accarezzare il volto di quel “figghio di matri” e per cui intona una preghiera antica in una lingua semisconosciuta.
Questi sono i colpi che la vita impiega per sgretolare il teatro dell’infingimento del “ciravolo”. E sotto questi colpi lui, come l’ “uomo dal fiore in bocca”, non può rimanere impassibile. Non può che tornare anche lui, con la mente, a quel gusto, a quell’accenno di vero che ha conosciuto. Così, svestito dalla giacca militare americana come dai corni rossi da indovino, decide di tornare a casa per vivere tra “uomini certi” e morire come “uomo certo”.
È chiaro che stare al fianco di un premio Nobel non è facile per nessuno, ma rimane interessante la rilettura di un passo della storia siciliana attraverso gli occhi di un uomo che ne vive le vicende dall’interno e con cui si confronta sinceramente. Rimane interessante la vicenda umana che restituisce il testo.
Una nota di merito va riservata al giovane interprete del “ciravolo”, Antonio Sposito, per aver saputo riempire il palcoscenico con la propria presenza, ma anche per la capacità di volgere il tono e la voce alle corde dei personaggi: spassoso sul Bob siculo-americano, convincente nelle pose sardoniche del “ciravolo”.
Il teatro si conferma luogo dove la finzione scenica mette a nudo le nostre finzioni quotidiane. Luogo da cui riparte una sincera ricerca del vero.
Spettacoli - La finzione del teatro e le finzioni dell'umano: Pirandello al Savio
(ph. gl)