“Per fare impresa oggi bisogna superare l’idea del business plan e affidarsi a quella del laboratorio”. Intervista a Giovanni Termini

 

Giovanni Termini è un ingegnere elettronico, con 24 anni di esperienza nel settore delle ICT (informatica e telecomunicazioni), con competenza nei settori finance e general management. Ha iniziato la propria attività in Italtel Spa dove ha lavorato per 10 anni. Amministratore di pmi subcontractor di multinazionali "global provider" di operatori telefonici. Attualmente impegnato nell'avvio di startup nell'ambito della domotica con tecnologie Internet of Things e Smart Energy.

La sua visione del “fare impresa” e del lavoro lo ha portato ad incontrare sin dal 2001 la Compagnia delle Opere e farne parte, dentro la storia di una amicizia operativa, che rappresenta da sempre il fattore distintivo dell’associazione. Lo abbiamo incontrato nella sua qualità di Presidente della CdO palermitana.

Che succede nella Compagnia delle Opere? Non se ne sente più parlare, soprattutto dopo gli scandali in cui è stata più o meno ingiustamente coinvolta. Ma esiste ancora?

Esiste ed è più viva che mai. Nell’ultimo incontro a Milano del marzo scorso eravamo più di 1.700 imprenditori che per due giorni abbiamo messo a confronto tantissime esperienze, anche in campo internazionale. Si è avviato un processo potremmo dire di mutazione, genetica, che ha bisogno di tempo e di nessun clamore, per affermarsi. Ma il fatto che non faccia notizia, non ci preoccupa affatto.

E da cosa nasce questa mutazione? Dalla crisi economica, dal disinteresse della politica o da altro?

Certamente sia l’internazionalizzazione di tutti i processi, compreso quelli che derivano dall’economia, sia il cambiamento del quadro politico nazionale sono all’origine di tanti piccoli e grandi cambiamenti; ma non è tutto.

Se la responsabilità è anche della politica, si potrebbe dire che la conclusione dell’era Formigoni ha inciso profondamente anche sulla CdO?

Non vivo in Lombardia, anche se ci vado spesso. Legare la vita della Regione Lombardia a quella delle CdO era sbagliato prima ed è errato ora. Il cambio della amministrazione ha forse reso più semplici e lineari tanti rapporti. In altri termini vengono meno all’origine motivi di confusione che possono aver generato equivoci. E poi la CdO non è né quella lombarda né quella italiana. È una struttura associativa presente in tante nazioni, non solo europee, e questo, così come ho potuto anch’io verificare, è un tratto caratteristico sempre più marcato.

Quindi la CdO rimane una struttura associativa di imprese, profit e non profit?

La struttura associativa rimane. Stanno via via cambiando quella organizzativa e soprattutto la sua mission.

Parliamo dei cambiamenti organizzativi, magari a partire dalla Sicilia. Come vanno le cose?

Tutte le grandi strutture associative professionali stanno subendo modifiche, anche per intervenire sui costi gestionali, basti pensare a quanto stanno facendo i sindacati o le associazioni imprenditoriali. In Sicilia provvederemo a ridurre le strutture fisse: uffici, servizi di front office, ecc. e ad incentivare i servizi per via telematica. Per esempio unificheremo le strutture presenti a Trapani e Palermo. Ma questo è solo la punta dell’iceberg. Le novità sono ben più profonde e radicali.

Cioè?

Lo spiego raccontando la recente esperienza fatta a Milano. Fino all’anno scorso il più importante appuntamento annuale di incontro tra gli associati CdO era il Matching, un appuntamento annuale in una grande fiera come occasione di incontro il cui focus era centrato comunque sull’accesso al mercato: la vendita dei propri prodotti/servizi. Certamente una bella esperienza ma ormai superata, anche dalla evoluzione del mercato mondiale.

E ora?

Quest’anno si è dato vita alla CdO Sharing, un modo di incontrarsi e confrontarsi totalmente diverso, soprattutto per degli imprenditori.

E in concreto?

In concreto abbiamo iniziato con 7 Sharing View, ascoltando in assemblea plenaria imprenditori, top manager, docenti universitari, uomini di cultura e dello sport e dello spettacolo con cui abbiamo iniziato a condividere le loro conoscenze rispetto ai grandi mutamenti epocali in corso.

E chi erano?

Hanno parlato Ubano Cairo, presidente del Gruppo Cairo Communication, Maximo Ibarra, Ad e Direttore Generale di Wind Telecomunicazioni, Linus, direttore artistico di Radio deejay, Mattia Noberasco, Ag di Noberasco Group, Giuliano Noci professore ordinario di marketing al Politecnico di Milano, Gennaro Nunziante, regista cinematografico, Andrea Rangone Ceo Digital 360 ed altri che ora non ricordo.

E dove sta la novità? In ogni assemblea si invitano sempre gli esperti, o no?

La differenza prima di tutto è che nasce un nuovo modo di lavorare insieme per sviluppare la propria impresa, attraverso la conoscenza di traiettorie che riguardano i temi principali e trasversali tracciati dalle Sharing View, ma soprattutto attraverso il lavoro che si è svolto nei 77 laboratori Sharing Lab su temi settoriali ed intersettoriali.

Come dire che è meglio imparare da altri imprenditori piuttosto che da esperti?

Sì, ma occorre un metodo ed è quello che Sharing ha proposto. I nuovi modelli economici hanno nella “condivisione” un presupposto essenziale per lo sviluppo e questo dimostra che la nuova economia conferma la visione tracciata dalla CdO e ha bisogno di una declinazione operativa per il cambiamento. I big/top manager hanno condiviso con noi la loro visione del cambiamento drastico dei valori, il calo demografico, la pervasività della rivoluzione tecnologica e informatica, l’instabilità finanziaria, la dipendenza dai mercati globali, le tante guerre che insanguinano il mondo, anche quello a noi vicino, il complesso problema delle migrazioni

E a quali conclusioni siete giunti?

Alla fine nessuno ha chiesto: “Dunque, che si fa”? Ma ciascuno ha preso maggiore consapevolezza che siamo alla fine di una fase del capitalismo senza avere alcuna certezza di ciò che diventerà, soprattutto nell’immediato futuro. Appare quindi evidente che in un momento del genere, in cui non ci sono riferimenti, ricette e quant’altro per la nuova rivoluzione industriale l’unico vero strumento per la conoscenza è la condivisione unita ad una visione della persona e del fare impresa.

E dopo, come avete continuato?

Sharing vuol dire “messa in comune”. Il metodo proposto, appunto quello della condivisione, si è espresso nei tantissimi laboratori, di circa 30 imprenditori ciascuno, che si sono svolti in seguito.

E questi come erano organizzati?

Per interessi specifici settoriali ed inter-settoriali

E cioè?

Io per esempio mi sono trovato a confrontarmi con molti operatori del settore turistico, ambito molto distante dal mio che è di carattere informatico, ma soprattutto sotto la guida di Erasmo Figini.

E chi è Erasmo Figini?

È un interior designer e stilista, che ha iniziato a lavorare nel settore dei tessuti e della moda. Ma è dotato di una tale curiosità ed è fornito di interessi così ecclettici da portarlo ad impegnarsi in settori tra i più disparati, compreso quello del non profit, collaborando alla gestione di una importante casa di accoglienza per giovani, La Cometa.

E come vi ha aiutato?

Invitando ad interrogarci su un tema per noi assolutamente marginale e tante volte ignorato: quello della bellezza.

E che c’entra adesso la bellezza con la responsabilità imprenditoriale?

Prima dei lavori sembrava poco chiaro il nesso tra la bellezza e le implicazioni tecnico-funzionali. Invece Figini ci ha fatto riflettere come possa essere vincente il binomio ospitalità/bellezza, che ha definito ontologico, perché presente nel nostro stesso essere. Cioè noi siamo al tempo stesso fatti per l’ospitalità e per la bellezza, perché in questo modo esprimiamo quello che siamo.

In un certo senso per me si è chiuso il cerchio: la CdO propone la sua idealità (non ideologia) attraverso il lavoro (Sharing Lab) ed io mi trovo in questo coinvolgimento a comprendere che l’ospitalità e quindi più in generale il soddisfacimento di un bisogno (la creazione di valore per un’impresa) inevitabilmente deve far capo ad una idealità che ci obbliga a comprendere la nostra natura per creare e ricevere il valore.

Possiamo essere più chiari?

Certo. Cosa c’è di più ospitale dell’evento della nascita di un essere umano, ma al tempo stesso questa ospitalità si esprime nella bellezza. Oppure: perché nel cercare un posto per le vacanze cerchiamo la bellezza del luogo, prima ancora dei costi o dei confort.

Ma questo come aiuta un imprenditore a vendere i suoi prodotti all’estero?

Figini ci diceva che l’ospitalità non è una tecnica; lo diceva davanti a decine di imprenditori turistici che erano perfettamente convinti del contrario. E aggiungeva che è innanzitutto un modo di essere. Se è così, allora anche chi produce scarpe o succhi di frutta deve porsi il problema di come accoglie tutta la realtà, la diversità con cui si imbatte quotidianamente. Non può limitarsi a dire: “Questo è il mio prodotto, il miglior prodotto, adesso sta agli altri apprezzarlo e acquistarlo”. E a questo punto ha introdotto un altro termine dirompente.

Quale?

La parola gratuità. Ci ha sfidato dicendoci: provate a trasferire nella vostra azienda la gratuità che vivete in famiglia, soprattutto nei rapporti e ne comprenderete la differenza.

Ed è così?

Ho provato in questi pochi mesi ed ho capito che l’ospitalità lega l’aspetto tecnico funzionale con quello ideale. È una specie di capovolgimento culturale, come se ci dovesse convincere che nel rapporto con i clienti ad esempio bisogna pensare secondo il famoso detto: “fate agli altri quello che vorreste fosse fatto a voi”. E a proposito di cambiamento culturale vorrei citar un altro esempio molto personale.

Prego.

Ad ottobre dell’anno scorso sono stato invitato a Palermo alla presentazione del libro di Julian Carrón, La bellezza disarmata. Certamente un bell’incontro. Ho pure comprato il libro che ho letto con un certo interesse, nella convinzione del bisogno primario che abbiamo della comprensione della nostra natura, ma che comunque si trattasse di un libro, come si diceva una volta, di spiritualità. Dopo la partecipazione alla CdO Sharing l’ho ripreso in mano, guardandolo anche in altra luce. Ad esempio ne ho compreso di più il titolo.

Perché?

Perché la nostra società ha bisogno che si affermi una bellezza in ogni aspetto che per essere vera ed efficace deve essere disarmata, cioè priva di pretese e di contraccambi. La bellezza sul proprio lavoro non si può pretendere da nessuna organizzazione né da alcun programma fatto a tavolino. Ma un lavoro che esprime bellezza affascina chiunque, e la bellezza se è vera, si esprime in tantissimi modi, anche a partire da come si accolgono le persone in una fabbrica di tessuti o in un negozio di ricambi d’auto.

Tutto qui?

No, perché la parte finale del libro, quella dedicata alla crisi, intesa come opportunità per il cambiamento, riguarda tutti, e non per i suoi risvolti spirituali. Il cambiamento che stiamo attraversando è certamente più forte e più profondo di quanto vorremmo o penseremmo. Come imprenditore e come persona, il mio obbligo/dovere è quello di poter guardare la realtà con quella libertà che mi consente di svolgere il mio lavoro quotidiano fino in fondo. Il libro può essere quindi inquadrato come un percorso per ottenere questo. Ma prima ancora mi pone la questione dell’obbligo di doverlo fare come impegno verso me stesso per non tradire ciò che sono.

E come è vissuto il cambiamento da uno che produce servizi informatici e deve fare i conti con decine di fornitori e dipendenti?

In modo molto serio e talvolta drammatico. Parto da una considerazione. L’uomo di oggi, almeno quello che vive nelle società più evolute, è un uomo diviso, quasi ne esistessero due versioni. La nostra vita fisica è affiancata da quella digitale, cioè quello che si esprime per via elettronica. Questo è quello che interessa al mercato e alle aziende. La identità digitale si costruisce attraverso il modo in cui ci si muove sul web, attraverso le app di uno smart-phone o di una smart-tv. La nostra traccia digitale determina il nuovo presupposto economico per costruire nuovi prodotti e servizi.

Noi non ce ne accorgiamo, ma siamo seguiti e interpretati anche da come usiamo la tastiera del computer quando facciamo un pagamento on line. Faccio un esempio.

Sì, forse è meglio?

Come si spiegano le tipologie di messaggi di vendita di prodotti che ci raggiungono sulla nostra posta elettronica ogni giorno. L’uso di un motore di ricerca di un navigatore ecc. determina il nostro profilo legato ai nostri bisogni e ai nostri desideri ed il primo effetto è quello di ricevere migliaia di messaggi pubblicitari correlati al mio comportamento. È più utile e meno costoso di una campagna pubblicitaria di stampo tradizionale. Ma questa è una faccia della medaglia, quella dell’acquirente.

Appunto! Ma l’imprenditore che fa? La CdO che fa?

Le imprese devono comprendere realmente i bisogni e i desideri dei loro clienti e non riferirsi più a generiche e anonime tendenze di mercato. In questo nuovo modello empatico bisogna farsi queste domande: “Ma chi sono davvero i miei clienti? Cosa pensano e provano realmente? Cosa dicono? Cosa fanno? Cosa vedono e sentono?”

Il presupposto imprenditoriale e metodologico a me riporta, per dirla in una parola della lezione di Erasmo Figini, alla “contemplazione”, cioè alla capacità di osservare un mondo che sta cambiando ridestando la soggettività capace di costruire in condizioni precarie e difficili.

E cosa chiede la CdO ad un imprenditore di oggi?

La CdO ci ha invitato a stare insieme non per vendere ciascuno il prodotto della propria azienda, ma per fare insieme un percorso senza partire da programmi preconfezionati, magari scientificamente corretti, e aiutarci a partire dalle competenze di ciascuno e non dalle analisi di mercato. L’idea guida è quella del laboratorio, non più quella del business plan. Insomma per comprendere la novità che avanza ci vogliono occhi nuovi e questi si possono fare solo in una esperienza comune, non in una analisi di laboratorio. E gli occhi nuovi possono esistere solo in un soggetto nuovo. Mi faccia leggere una frase di don Giussani, citata nel libro di don Carron.

Prego.

“La soluzione dei problemi che la vita pone ogni giorno non avviene affrontando direttamente i problemi, ma approfondendo la natura del soggetto che li affronta”.

Torniamo all’astratto?

Assolutamente no. La persona nuova di cui parliamo in CdO è un soggetto innanzitutto profondamente inserito nella realtà in cui vive, e questo non è un fatto ormai scontato, vista la fuga dalla realtà che contraddistingue, soprattutto le generazioni più giovani. Posso fare una citazione?

Quale?

Leggo una frase dell’intervento conclusivo fatto da Bernard Scholz all’assemblea generale della CdO il 12 marzo. “Viviamo come tutti i problemi di tutti e sappiamo bene che tentativi di risposte pur piccole possono solo nascere da persone che non solo tecnicamente e professionalmente preparate – requisiti indispensabili – ma creative e capaci di valutare l’impatto della propria azione a livello sociale ed ecologico, persone convinte che ogni bene è un bene ricevuto che deve essere in qualche modo condiviso per portare frutti utili; persone consapevoli che la proprietà privata implica per sua natura una responsabilità sociale e che il profitto è uno strumento e non uno scopo; persone coscienti che lavorare insieme è difficile, ma l’unica strada per aggiungere obiettivi soddisfacenti… L’esperienza ci insegna che una persona certa di un destino positivo incide in modo costruttivo nell’ambiente in cui vive e lavora, si dimostra più capace di leggere e affrontare i problemi che la circondano e crea spesso relazioni che aiutano anche altre persone a scoprire una positività per la propria vita”.

E tutto questo come può aiutare un imprenditore, la CdO in Sicilia, ecc.?

Diventato un modo quotidiano di operare, proprio nel fare impresa. D’altra parte ci sono già studi scientifici che dimostrano l’importanza del fattore umano nell’azienda. Ma qui si tratta di guardarlo e valorizzarlo in modo nuovo, non a partire solo dai risultati che può produrre. Sempre a Milano ci hanno presentato i risultati dell’ultimo rapporto sulla Sussidiarietà, quello su Sussidiarietà e politica industriale. Sono stati citati molti dati, ma quello più significativo dimostra che la tendenza a cooperare in azienda e tra le aziende è il fattore più importante, ed incide sia nella crescita del fatturato che nell’innovazione del prodotto. Altri due fattori sono poi la responsabilità personale e il desiderio di autorealizzazione.

Ma non sembrano cose così sconvolgenti.

Certo anche il premio Nobel per l’economia, James Heckman, ha parlato di questi fattori, ad esempio il chracter, come lo chiama lui. Ma mi ha colpito che sia lui che don Giussani parlavano di “mettere al centro la persona” e questo oggi può fare la differenza, non per la genialità dell’idea, ma per l’incidenza che può avere su tutti, sugli imprenditori, sui dipendenti… fino ai pensionati.

L’argomento pare ancora da approfondire. Quando?

Magari alla presentazione del rapporto su Sussidiarietà e politica industriale che speriamo di fare a Palermo dopo l’estate.

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