Sfide della vita e insegnamento della religione. Intervista a Michele Pennisi a margine del convegno della FISM

 

Si è concluso sabato scorso 10 settembre, presso l’Hotel Saracen di Isola delle Femmine, l’annuale corso di formazione/aggiornamento avente per tema: “Significato e valore dell’educazione religiosa (IRC) nella scuola dell’infanzia e primaria” organizzato dalla FISM (Federazione Italiana Scuole Materne) regionale e rivolto a insegnanti e dirigenti delle scuole paritarie.

Il corso di formazione /aggiornamento viene tenuto annualmente all’inizio dell’anno scolastico. “E’ un appuntamento atteso e sentito – spiega Nicola Iemmola, il presidente regionale – perché consente a tanti insegnati di iniziare col ‘piede giusto’ l’avvio dell’anno scolastico. Ogni anno affrontiamo tematiche diverse e specifiche e affianchiamo alla comunicazione in aula l’esperienza dei laboratori, nei quali ci si può confrontare sulle esperienze sul campo e su come affrontare una tematica così importante come l’educazione dei bambini in età prescolare”.

“Da molti anni – prosegue Iemmola – collabora con la FISM la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Palermo. Le lezioni sono state tenute dal prof. Giuseppe Zanniello, che è anche direttore del corso, e dai professori G. Lavanco, A. La Marca, G. D’Addelfio. I laboratori sono stati condotti dalle d.sse. L. Longo e K. Fiandaca. Hanno portato il loro contributo al convegno anche il Presidente nazionale della FISM B. Girardi e il Consulente ecclesiastico nazionale FISM Don A. Basso.

Tra gli ospiti anche quest’anno non ha fatto mancare la sua presenza mons. Michele Pennisi, l’Arcivescovo di Monreale, che è il delegato della Conferenza Episcopale siciliana per la scuola, l’università e l’educazione cattolica. Gli abbiamo rivolto alcune domande proprio sul tema dell’educazione cattolica nelle scuole, con particolare riferimento a quella prescolare.

Mons. Pennisi, iniziamo da una recente indagine condotta dal prof. Franco Garelli sulla esperienza religiosa dei bambini e raccolta in un volume dal significativo titolo: “Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio?”. Il dato che emerge è che sia la negazione di Dio e sia l'indifferenza religiosa tra i giovani stanno crescendo sensibilmente; per contro ciò che si diffonde è un "ateismo pratico" tra quanti mantengono un legame labile con il cattolicesimo.

Conosco i dati della ricerca e li condivido, anche perché il prof. Garelli è un grande conoscitore della materia. Aggiungo che dalla stessa ricerca emerge quello che non viene mai spento nel cuore dell’uomo: la domanda di senso. Oggi la si esprime in una propria interiorità personale, passando da una dimensione verticale (lo sguardo alla trascendenza) ad una orizzontale (la ricerca dell'armonia personale). Ma questa è l’esperienza che mi raccontano tanti parroci quando giungono per la prima volta i ragazzi del catechismo.

Cioè?

Capita molto sovente che i bambini di sette/otto anni siano iscritti dai genitori al Catechismo e giungano privi dei più semplici elementi di cultura cattolica, per esempio non conoscono né le preghiere basilari né talvolta sappiano fare con normalità o spontaneità il segno della croce.

Ma allora, in questo quadro, che senso ha ancora parlare di insegnamento cattolico nelle scuole italiane e a maggior ragione in quelle 0-4 anni?

Partiamo intanto dai dati normativi. Il secondo comma dell’art. 9 dell’Accordo di revisione del Concordato del 1984 dove si dice: “La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado”. E poi aggiunge che di tale diritto possono o no avvalersi i genitori. Quindi c’è il riconoscimento non solo del valore della cultura cattolica, ma anche del patrimonio storico del cattolicesimo. E tutto ciò per quanto mutato è ancora presente. Ma capisco bene che non è sufficiente solo la rivendicazione di un diritto.

E cosa occorre, allora?

Leggere quanto ho detto in rapporto a quanto affermato nella nota pastorale della Conferenza Episcopale italiana del 1994, dal titolo “Insegnare religione cattolica oggi” in cui si spiega che tale insegnamento “è un servizio educativo a favore delle nuove generazioni” che “intende rispondere alle domande della persona e offrire la possibilità di conoscere quei valori che sono essenziali per la sua formazione globale”.

E qual è dunque la sintesi?

Offrire ai giovani, anche ai più piccoli, non una proposta chiusa cui aderire o magari rifiutarla in toto, ma un modo di affrontare le sfide della vita, soprattutto quella del senso, come emerge dalla indagine di Garelli, mettendo in campo tutti i fattori presenti, anche quelli religiosi, e aiutarli a giungere in libertà e autonomia alle mete per loro più corrispondenti. E ciò vale, forse a maggior ragione, per i bambini in età prescolare.

Ci spieghi perché?

Utilizzo a maggior chiarezza il testo del Catechismo dei bambini predisposto per questo scopo che non a caso si intitola: “Lasciate che i bambini vengano a me”. In esso si afferma innanzitutto un principio che spesso si dimentica: il tempo dell’infanzia ha un valore in se stesso e non soltanto in attesa dell’età adulta. Questo vuol dire che questi bambini non possono essere trattati come destinatari di una educazione, compresa quella religiosa, ma sono già protagonisti della loro vita, e quindi in grado di capire il significato degli incontri che fanno. C’è poi un altro punto qualificante.

Quale?

Quello relativo alla corresponsabilità dei genitori in questo processo formativo, che purtroppo, viene sempre meno. La delega dei genitori alla scuola non riguarda solo gli aspetti conoscitivi, ma anche quelli educativi come si verifica poi con la crescita e la frequenza alle classi superiori. Quindi un coinvolgimento dei genitori nella educazione religiosa fin dai primi anni è fondamentale. Ma questo è proprio l’anello che si è rotto nella catena educativa, quello che emerge con chiarezza dalla studio di Garelli.

Ma così abbiamo ridotto l’insegnamento della religione al catechismo?

Assolutamente no! Ogni scuola materna, sia essa statale, comunale o autonoma, impegnata, cito la Nota pastorale della CEI dal titolo: “La scuola cattolica risorsa educativa della Chiesa locale per la società” è chiamata a “promuovere la formazione integrale della personalità dei bambini” e a rivolgere l’attenzione al rapporto del bambino con tutta la realtà religiosa. Mi spiego meglio: i bambini fanno domande e vogliono risposte, circa il senso della propria vita: la nascita e la morte, le origini della vita, i motivi di fatti e eventi, le ragioni delle diverse scelte degli adulti, i problemi dell’esistenza di Dio. A questa esigenza bisogna saper rispondere.

E l’insegnante di religione che deve fare?

Certo non deve né censurale né dare risposte univoche o scontate. La nota appena citata dopo aver ricordato come alle domande di cui sopra sono state date e si danno diverse risposte, afferma che la scuola è chiamata a prestare attenzione a queste domande, aprendosi anche, con una sensibilità multiculturale, a un dialogo “franco, sincero e aperto”, “rispettoso delle scelte e degli orientamenti delle famiglie”, per sviluppare “un corretto atteggiamento nei confronti della religiosità e delle religioni e delle scelte dei non credenti che è innanzitutto essenziale come motivo di reciprocità, fratellanza, impegno costruttivo, spirito di pace e sentimento dell’unità del genere umano e per promuovere “la comprensione delle esperienze relative al senso dell’appartenenza, allo spirito di accoglienza e all’atteggiamento di disponibilità”.

In conclusione, a chi spetta la trasmissione della esperienza cristiana a questi bambini di oggi capaci di cercare Dio sul tablet, ma non di riconoscerlo nell’ostia consacrata?

Questo compito rimane sempre in capo alla comunità cristiana, intendendo però non un insieme di compiti e funzioni da delegare a questo o a quello: intendo la parrocchia, i nonni, in parte i genitori, gli amici ecc. Un soggetto unico e ben identificabile che nelle sue molteplici sfaccettature possa offrire una unità di metodo educativo in grado accompagnarlo almeno per tutta la fase della sua esperienza di crescita fisica e spirituale. Questa è la responsabilità specifica della comunità cristiana entro cui c’è spazio anche per gli insegnati di religione, ma all’interno del compito che gli è riconosciuto dalla Stato e della loro responsabilità di adulti cristiani.

 

Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per offrire servizi in linea con le tue preferenze. Se non accetti le funzionalità del sito risulteranno limitate. Se vuoi saperne di più sui cookie leggi la nostra Cookie Policy.