Inaugurata sabato 4 febbraio, è in pieno svolgimento nella chiesa di san Giorgio dei Genovesi a Palermo la mostra “Migranti: la sfida dell’incontro”. Presentata al Meeting di Rimini lo scorso agosto dove ha riscosso un lusinghiero successo ha iniziato da Palermo un giro che la porterà in una quindicina di città siciliane fino all’estate.
Sono centinaia le persone che ogni giorno si muovono tra i 39 pannelli che la compongono e i video di testimonianze e dati statistici che l’accompagnano.
Un ruolo importante, quasi strategico, è svolto dalle “guide”, coloro che dopo una adeguata preparazione si sono assunte l’onere di accompagnare i visitatori lungo le due navate della chiesa. Sono studenti universitari o professionisti, mamme di famiglia o pensionati che hanno approfondito e fatti propri i temi che sono riportati sia nel catalogo della mostra che nell’ampia documentazione reperibile sul sito del Meeting di Rimini.
Tra queste vi è Susanna, è una studentessa universitaria palermitana che frequenta l’università di Bologna e che ha partecipato fin dall’inizio prima alla preparazione e poi alla illustrazione facendo la “guida” alla mostra per una settimana al Meeting. È tornata per alcuni giorni a Palermo “per condividere un pezzo di questa esperienza” ci ha detto.
Ne abbiamo approfittato per chiedere innanzitutto del lavoro preparatorio svolto l’anno scorso: quanto è durato? Cosa ha richiesto? Chi vi ha partecipato?
Il lavoro di questa mostra, mio e quello dei miei colleghi dell'Università di Bologna, è nato a conclusione di una iniziativa svolta nel nostro ateneo l'anno precedente. Per tre giorni abbiamo cercato di affrontare i tanti aspetti della nostra condizione di studenti e di giovani. Già in quella circostanza avevamo più volte discusso fra noi del senso di quello che stava accadendo dopo gli attentati di matrice islamica di Parigi ed il tema dell’accoglienza ai migranti, in tutti gli aspetti, anche i più contraddittori, tornava sempre.
E cosa avete deciso?
Ci siamo rivolti al giornalista Giorgio Paolucci che sapevamo essere persona molto competente per avere studiato a lungo il fenomeno negli anni scorsi ed aver pubblicato più di un libro sull’argomento. Paolucci ha colto subito la nostra provocazione e insieme ad un gruppo di studenti dell'Università di Milano (Statale e Cattolica) abbiamo costituito un gruppo di appassionati che ha iniziato a studiare l’intera problematica.
E come è nata l’idea della mostra a Rimini?
È nato pian piano, quando il lavoro si è fatto più serio e specifico ed era evidente che richiedeva uno sbocco adeguato.
E Paolucci in cosa vi ha aiutato?
Nell’allargare il nostro orizzonte. Ci ha messo in contatto con specialisti competenti nei vari settori e questi ci sono stati di ulteriore pungolo per affrontare aspetti che magari all’inizio non avevamo preso in considerazione.
Chi in particolare?
Statistici, economisti, demografi, ecc. Questi contributi hanno costituito l’ossatura della mostra e sono riportati nel catalogo della stessa.
E quanti sono stati gli studenti che hanno partecipato?
Una diecina quelli di Bologna e una ventina quelli di Milano.
Vi è stata richiesta una competenza specifica?
No, piuttosto una passione condivisa. Ad esempio c’era tra noi uno studente che fa designer. Ha studiato come tutti e poi ha curato la parte grafica del catalogo.
E tutti questi studenti poi sono diventati le guide del Meeting?
No, perché nulla vi era di automatico. Il lavoro per la gestione della mostra è iniziato a luglio dopo che era stata ultimata la fase di studio.
E in che cosa è stata diversa questa fase da quella precedente?
Per fare la guida ci è stato chiesto non di imparare a memoria una pur appassionata spiegazione dei singoli cartelloni, ma di condividere innanzitutto le ragioni culturali che vi stanno al fondo.
E quali sono?
Partiamo dal tema del Meeting, che era “Tu sei un bene per me”. Ciascuno ha dovuto comprendere e metabolizzare questa affermazione per essere in grado, come poi è realmente accaduto, di rispondere alle tante obiezioni: perché vengono da noi? Perché non li rimandiamo indietro? Sono tutti delinquenti. Ci tolgono il lavoro.
E come avete fatto?
Partendo dalla realtà, dal positivo che queste persone esprimono e dai desideri che le muovono. Guardavamo ciascuno di loro, e ne incontravamo tanti in quei mesi, come uno di noi. A pensarci bene non è difficile capire che nessuno di noi si è fatto da solo o può vivere da solo. Si tratta però di non rimanere schiavi dei tanti giudizi affrettati e talvolta malevoli che girano E la mostra in tal senso è stato uno strumento prezioso.
Perché?
Perché è in grado di smontare molti luoghi comuni e molti giudizi privi di fondamento. Coloro che al Meeting hanno seguito con onestà il precorso che illustravamo, alla fine lo ha sempre ammesso.
E dunque, perché costoro sono un bene?
Il bene non è appena la convenienza che ciascuno può sempre trarre da una situazione particolare. Bisogna essere realisti: partire dalla loro presenza tra noi, che non può essere né ignorata né combattuta, e dalla comune esperienza umana trarre una positività per tutti. È più realistico accoglierle, ovviamente con tutte le opportune modalità, piuttosto che ipotizzare percorsi indietro. Questo è quello che possiamo fare noi. Ai Governi e alle Nazioni le altre responsabilità per una questione che è e rimane difficile da risolvere.
Quindi nessuna soluzione da proporre?
Questo è il tema del primo cartellone. Non avendo la soluzione che vada bene per tutti, meglio partire dal dato: queste sono persone e vanno guardate e chiamate per nome, come noi chiediamo per noi stessi. Ad esse io non posso appiccicare la mia concezione di bene; ma dal bene che queste portano con sé, a prescindere dalla mia concezione, bisogna far scaturire una forma di convivenza in cui ci sia rispetto per tutti.
Quindi è giusto che loro rispettino le nostre regole?
Non c’è convivenza umana che non si fondi sulle regole. Ma non aspettiamoci dalle regole la soluzione. Anche se tutti loro riuscissero a rispettare tutte le nostre regole, anche quelle che non nascono dalla loro concezione culturale, questo non genererebbe convivenza sociale, cioè nuova socialità, perché il rispetto delle regole non produce un bene né per il singolo né per la società, se queste non servono per generare un nuovo modo di vivere insieme tutti, noi e loro. Ma va precisata una cosa.
Cosa?
Questa estraneità che proviamo per gente che viene da migliaia di chilometri e realtà così diverse, noi possiamo provarla con il collega di università o col vicino di casa, se non addirittura col padre e la madre. L’ostilità che talvolta proviamo verso queste persone è la stessa che proviamo verso tutti coloro che riteniamo “pericolosi” o “nemici” per la nostra persona. Quindi, per dirlo in termini più chiari: il problema sono innanzitutto io, prima che loro. Cioè, come io mi pongo nei loro confronti, prima di come loro si pongono nei miei. Ecco perché sono un bene. Lo sono se io lo voglio e lo voglio per loro, come lo voglio per me.
E in conclusione, come è stata l’esperienza di guida al Meeting?
Bellissima, talmente bella che ho sottratto tre giorni al mio studio per venire a condividerla con i miei amici di Palermo.