(21 agosto 2012) - Il grand tour siciliano del ‘700, ad opera di intellettuali, artisti e scrittori del nord Europa, svelò al mondo una Sicilia piena di fascino e di antiche vestigia, perlopiù di età classica. Precedentemente altri viaggiatori illustri e raffinati avevano visitato in lungo e in largo la Sicilia esaltandone le bellezze naturalistiche e monumentali. Uno di loro, Ibn Jubayr, intorno al 1184, decantava le ricchezze dell’Isola e descrivendo i monti intorno a Messina elencava i doni dei giardini “che producono mele, castagne, nocciole, prugne ed altri frutti”. Ed aggiungeva rammaricato che “i musulmani non sono che pochi”. Ad onor del vero, non erano mai stati tanti tra i monti Peloritani e i Nebrodi. Quest’area dell’Isola, infatti, anticamente denominata Val Demone, comprendeva i territori prevalentemente montuosi della Sicilia nord orientale intrisi di cultura greca e disseminata da cenobi basiliani.
Dei tre Valli, quello del Demone, certamente era quello meno islamizzato, un’appendice di terra che ha permesso a schiere di monaci di oltrepassare lo stretto e recarsi nella silva calabrese, dove poter continuare a vivere la regola basiliana e dedicarsi alle cose di Dio. Molti rimasero sul versante isolano, attrezzandosi come poterono e preparando idealmente la reconquista cristiana che non si fece attendere per molto tempo. Spettò ad un drappello di uomini, proveniente dalla Normandia, a scardinare un mondo che già mostrava delle crepe, oramai privo della forza propulsiva del jihad e destinato inevitabilmente ad arretrare in Europa. E al loro seguito, uno stuolo di uomini di chiesa piantava croci ed officiava la liturgia nei luoghi di culto eretti dai signori del Nord, avamposti che si ergevano a difesa delle popolazioni cristiane e sentenziavano la fine di un’epoca. Ancora oggi è possibile respirare quel clima intraprendendo un silenzioso percorso peloritano scandito da tre scrigni architettonici ecclesiastici di epoca normanna, posizionate sull’asse viario Taormina-Messina.
Alle pendici di questi monti, come sentinelle tra rovi, limoni e un rado bosco, si ergono le isolate chiese di SS. Pietro e Paolo a Castelvecchio Siculo, nei pressi del torrente D’Agrò, Santa Maria a Mili San Pietro ai bordi del torrente che dà il nome alla zona e per finire San Pietro di Itàla, nelle adiacenze dell’omonima fiumara. Sono accomunate da un preponderante sincretismo culturale arabo-greco-normanno che si concretizza in una sintesi artistica di grande suggestione e di grande effetto visivo. Solinghe ed appartate, poco conosciute al grande pubblico, necessitano di particolari attenzioni visto lo stato in cui versano, in particolar modo quella di San Pietro di Mili che difficilmente potete visitare al suo interno.
Lo stupore nel gustare il gioco cromatico delle strutture dovuto ai ricami di pietra arenaria, pomice e lava intrecciati con filari di mattoni cotti a forma d’archi ora a spina di pesce o a dente di sega si traduce in ammirazione per una ricerca coloristica adottata da maestranze multietniche. Come si può ammirare nella turrita chiesa di SS. Pietro e Paolo d’Agrò voluta da Ruggero II nel 1117 che dà ancora oggi il senso della fortezza, ecclesia munita, per difendersi dalle popolazioni musulmane. O nell’altra di Mili, chiesa-mausoleo che avrebbe accolto nel 1092 il corpo di Giordano, figlio del conte Ruggero, morto di febbri a Siracusa, in cui commistioni arabe-normanne si possono scorgere nella cupola a calotta su tamburo ottagonale raccordato da trombe angolari a tronco cono, costitute da archetti multipli ad aggetto crescente.
A voler seguire la tradizione, anche la chiesa di San Pietro ad Itàla è legata al gran condottiero perché, dove sorge la chiesa, si consumò uno scontro tra Normanni e Arabi e quest’ultimi ebbero la peggio. Esternamente l’edificio assume una euritmia incalzante dovuta ad una serie di archi superiori trilobati intrecciati e da archi minori a rincasso. Non rimane che intraprendere il cammino e seguire tale itinerario che si preannuncia ricco di fascino e di suggestione, e che ci restituisce un frammento della straordinaria cultura prodotta da un’Isola posta tra Oriente ed Occidente.
N.B. In questo percorso agostano non dimenticate di portarvi un cestino e dei guanti, vi saranno utili per raccogliere le succose more che crescono abbondantemente nell’area. Serviranno per produrre uno sciroppo e guarnire un gelato alla panna. Una vera bontà! Sempre in zona, per chi ne avesse voglia, può assaporare un ottimo gelato dal sapore antico. E’ sufficiente recarsi a Santo Stefano di Briga dove, accanto alla graziosa chiesa madre che sfoggia un bel portale cinquecentesco, la pasticceria di Eleonora De Stefano propone gelati lavorati come vuole la tradizione siciliana.
Reportage – Le more dei basiliani. Nella photogallery sono contenute immagini delle chiese d'impronta greco-arabo-normanna che si trovano sui monti Peloritani, tra Taormina e Messina. In particolare, le immagini raffigurano le chiese di San Pietro di Itala, Santa Maria a Mili San Pietro, Santi Pietro e Paolo a Castelvecchio Siculo.– Sicily Present (photo lb)