I giovani: il motore che li muove tutti.
“La più profonda definizione della giovinezza è vita non ancora toccata dalla tragedia” (Alfred North Whitehead)
Ci sono città che alla sera rimbombano di risate, di sorrisi accesi, nonostante la tempesta là fuori. Ci sono città dove i vicoli dimenticati diventano piazze, nonostante il buio; e ci sono città attraversate di notte da eserciti in silenzio, i cui soldati – che tra loro si disconoscono – tengono alta una fiaccola accesa, per un soldato che ha smesso di tenere la sua.
Ho conosciuto molti sguardi: alcuni non lo hanno mai saputo. Per una ragione, o per un’altra, alcuni di loro non si sono mai voltati, perché troppo presi dalla loro felicità, da quel cerchio improvvisato all’angolo di una strada, di una scuola, di un panificio, di un bar. Un concetto semplice di felicità: una partita, un compleanno, una battaglia, una tregua.
Parlo di loro, che riempiono di voci i cortili delle scuole, che arrivano col casco slacciato, perché si fidano della strada, forse troppo. Parlo di loro, che si cercano, come se tra loro si conoscessero tutti. Ciascuno ha un nome diverso: Clara, Roberto, Elisabetta, Francesco; nessuna cosa, come il proprio nome, si portano dietro con gelosia, e sentirsi chiamati li illumina nei volti e nelle menti. Ricercando un piccolo spazio in tutti, rincorrono chi li chiama spesso, perché non li fa sentire soli. Sono anime piccole a guardarle, ma grandi se tra loro vicine, compatte; talvolta, se ferite, sono anche silenziose, sfuggenti, spinose. Le loro sono storie lunghe, che scrivono poco alla volta, ogni giorno, sul quaderno, sui banchi, sui muri, sulle pagine introduttive dei testi universitari. Sono coltivatori di sogni, pescatori di conquiste, ricercatori di scoperte: sono giovani, sono i giovani.
Li conosco da molto tempo ormai, e di ciascuno mi è rimasto qualcosa; una domanda, una risposta, un dubbio, una certezza, una sconfitta, una vittoria, un abbandono. Ho imparato a riconoscere col tempo le loro abitudini, le loro sospensioni, i pensieri logorroici e quelli avari, le gelosie irruente, le paure: la paura, la paura del buio. Chi siamo noi? Siamo una speranza, siamo i loro eroi, i loro libri, i loro voti, le loro punizioni, i loro pianti: tutto. Il nostro è un ruolo vero, perché sono loro a darcelo. Ridendo, piangendo, bucando una ruota, che importa come ce lo diano: ce lo danno. Noi non siamo solo cittadini, noi non siamo solo insegnanti, noi non siamo solo genitori, non siamo solo presidi, né rettori, né datori di lavoro: siamo custodi, i loro custodi. Ogni giorno dovremmo svegliarci un’ora prima per ricordarci di uno di loro, che ce l’ha chiesta; ogni giorno noi, politici, politicanti, sindaci, consiglieri, dovremmo mettere da parte qualcosa per chi deve ancora nascere, per chi non ci ha ancora trovati. Troppo spesso affidiamo ai prepotenti il potere di soggiogare i nostri giovani, troppo spesso per loro i contratti sono un inganno, una promessa fugace di sudditanza eterna. Troppo spesso ignoriamo il loro coraggio, la loro grande capacità di affidarsi completamente, i loro talenti, capaci di rispondere a tutte le nostre esigenze. Troppo spesso non li chiamiamo per nome, ma per funzione: troppo spesso.
E voi, che vivete nelle città del mondo, facendo i padroni del nulla, interrogatevi: trovate un attimo per aprire le vostre finestre. Qualcuno di loro passerà: passa sempre. Guardateli. Sono frammenti del futuro che passano lungo una strada, sono le risorse primarie del nostro sistema, sono l’orgoglio che abbiamo, la prova di qualsiasi nostra religione, sono la consolazione alle nostre crisi, sono le vittorie contro le nostre sconfitte. Guardateli passare. Fate in modo che nessuno vi sfugga lungo i marciapiedi: imparateli tutti. Non ha importanza se voi non li rivedrete, loro di voi si ricorderanno. Ci lasciano la posta della mattina; lucidano i vetri dei negozi, vestono i manichini, sparecchiano i tavoli del bar, stanno a guardia di una caserma per tutta la notte, corrono lungo le corsie in camice opaco; ripassano sulle scale, masticando il dorso delle loro matite. Sono sempre loro. Muovono in silenzio le nostre città, e noi… ce ne dimentichiamo. Non siamo capaci di aspettarli, non siamo capaci di ascoltarli: siamo troppo impegnati. Ma con chi? Con che cosa? Sono loro il nostro impegno, ogni giorno, in ogni luogo: non c’è luogo dove non possiate trovarli per prendervene cura. I vostri contratti ingrati, a svantaggio sempre delle loro vite, vi faranno risparmiare, vi autorizzeranno a sfinirli, ma un giorno qualcos’altro li verrà a salvare, e voi avrete perso il motore della vostra macchina: e chiuderete. La giustizia sta sempre dalla loro parte, e non importa da quanti anni innalzate la vostra gloria sulle loro spalle: saranno le loro spalle a portarli alla gloria e a spegnere le vostre bugie. Siete i padroni del nulla, siete cittadini di città che non sono vostre: perché ogni cosa è per loro; le ville, le strade, le chiese, le biblioteche: ogni cosa è per loro, anche se non glielo dite.
Imparate a custodirli, di giorno, di notte, perché non scappino, perché la violenza non se li porti via, perché le scuole non li lascino fuori, perché non crollino, perché non cerchino carnefici. Siamo i genitori di tutti, siamo gli insegnanti di tutti gli allievi: siamo custodi. Il nostro futuro sono loro: ciascuno di loro ne è un pezzo, un pezzo indispensabile. Sono loro la forza più grande, sono loro la grande risorsa, sono loro la risposta. Se un giorno impareremo che le città appartengono a loro, allora le nostre città potranno salvarsi, e le nostre nazioni parlarsi: perché in questo loro sono bravi. Nessuno come loro crede nelle somiglianze, nessuno come loro combatte ogni giorno perché nessuno sia “diverso”; nessuno come loro si muove con lo stesso passo. Non ci serve nulla. Basta amarli: al resto pensano loro.
“È la febbre della gioventù che mantiene il resto del mondo alla temperatura normale. Quando la gioventù si raffredda, il resto del mondo batte i denti” (Georges Bernanos)
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